“La battaglia dei Campi Catalaunici” – IV puntata

Pubblichiamo a puntate il romanzo storico “La battaglia dei Campi Catalaunici”, scritto da Giuseppe Sabbatini e illustrato da Lorenzo Sabbatini, dove accanto alla figura del generale Ezio c’è, protagonista e testimone, il giovane soldato Terenzio, proveniente da Ricina, oggi Villa Potenza di Macerata.

Il centurione Camillo – Terenzio non sapeva in quel momento che il Centurione, che li comandava in questa avventura e che aveva scelto gli uomini per comporre la scorta al Comandante Ezio, aveva riconosciuto Camillo, allora semplice eques, che con altri uomini era intervenuto a salvargli la vita. Era difatti accaduto che, appiedato da una freccia che aveva abbattuto la sua cavalcatura e circondato dai Burgundi, il Centurione nel cuore di quella battaglia era stato per essere sopraffatto dai barbari inferociti. Camillo e gli uomini che allora erano con lui e coi quali aveva poi costituito la decuria divenuta celebre di cui ora faceva parte anche Terenzio, si erano battuti strenuamente riuscendo alla fine a spezzare l’assedio attorno al Centurione, rimasto per questo ammirato e riconoscente per il valore e l’assoluta dedizione dimostrata da quegli uomini per la sua salvezza e la causa di Roma. Riconosciuto quella sera Camillo nel campo trincerato, non aveva esitato un attimo a sceglierlo con i soldati della sua decuria per quella missione così delicata ed importante.

L’agguato – Nel mentre dunque Terenzio piano piano riusciva a dare risposta ai tanti perché che si era posto, il gruppo di cavalieri con il carro era arrivato in prossimità di un modesto corso d’acqua (oggi denominato “Soudé”, affluente della Marna) che limitava da quel lato i Campi Catalaunici e che il drappello doveva oltrepassare per poter proseguire la sua strada. L’attraversamento non sembrava dover costituire un ostacolo particolarmente difficile, ma la Guida a quel punto insistette affinché si utilizzasse un guado sicuro a sua conoscenza, posto qualche centinaia di metri lontano dal luogo in cui il drappello si era affacciato sulla sponda.

La morte di Didimo – Fu così che si diresse verso quel punto, in prossimità del quale l’inconfondibile sibilo di una freccia pose fine alla eroica carriera di Didimo, legionario del reparto nel quale aveva svolto tutta la sua carriera, distinguendosi per coraggio ed abilità nel combattere. Nessuno ebbe il tempo di soccorrerlo; sbalzato da cavallo, Didimo giaceva in terra senza dar segno di vita. La ferrea cotta di maglia che indossava non era riuscita a fermare il dardo mortale e forse era stato meglio così perché tutti sapevano che i nemici non facevano prigionieri e tanto meno si curavano dei feriti. La vita umana in quei tempi era una scommessa e spesso averla vissuta per un giorno in più era considerato di per sé già una vittoria, viste le insidie che in ogni momento si paravano per tutti.

L’attacco – Subito una miriade di altre frecce oscurò il cielo e ne fece le spese il cavallo di Camillo, che cadde rovinosamente in terra assieme al suo cavaliere. Tutti gli altri cercavano di ripararsi con gli scudi da quella inattesa pioggia di dardi, scagliati da un numeroso gruppo di armati nascosto nella “rota” del fiume, mimetizzati fra i numerosi salici, ontani e fra gli arbusti e piante erbacee, canne, giunchi e rovi che su quell’argine erano sorti e cresciuti spontanei in gran numero, tanto da offrire in quella occasione eccellente riparo per un agguato in piena regola come quello teso agli ardimentosi cavalieri di Ezio.

La fuga – “Traversiamo il fiume e via!” comandò il Magister, ripresosi dallo stupore e preoccupato di salvare la missione. Anche la Guida risultò colpita, almeno così pensarono gli scampati perché all’appello, dopo aver compiuto un precipitoso guado (si salvi chi può!), non risultò fra i superstiti del drappello ritrovatisi a qualche distanza, in una piccola radura lontana dal punto dell’agguato. Mancavano Didimo, Camillo e la Guida il cui nome, Ruhr, venne reso noto in quei frenetici momenti. Si trovò vicino il cavallo scosso di Didimo, che si era aggregato agli altri guidato dall’istinto animale del branco e subito venne ripreso per la briglia e legato dietro la carruca potendo servire di riserva per qualche nuova esigenza.

Al soccorso di Camillo – Ezio maturò immediatamente l’idea che non era il caso di fermarsi ad aspettare eventuali superstiti dell’imboscata e diede ordine di riprendere la corsa, ma Terenzio si fece avanti a supplicare: “Magister! Camillo, il mio Decurione, è rimasto appiedato e rischia di essere catturato dagli assalitori. Chiedo il permesso di soccorrerlo, fermandomi qui per cercarlo od aspettarlo”. Sorpreso ed ammirato dal coraggio di quell’uomo per il rischio che volontariamente si assumeva animato solo dallo spirito di corpo del reparto al quale i due legionari appartenevano, Ezio, che da buon militare nutriva nel suo animo quello stesso sentimento di amicizia e solidarietà manifestato da Terenzio che solo il Servizio militare è in grado di originare, non esitò: “Legionario, il tuo coraggio è pari alla vostra fama. Soccorri il Decurione e buona fortuna! Fra qualche giorno conto di ripassare in forze di qui e allora potrete riunirvi a noi”. Subito il residuo drappello ripartì di gran carriera lasciandosi alle spalle il sinistro luogo dell’agguato.

Una scena orribile

Terenzio si organizza – Rimasto solo Terenzio non si perse di coraggio ma rifletté sul da farsi perché il suo spirito di conservazione e le sue esperienze maturate negli anni di militanza lo consigliavano di non compiere gesti impulsivi che avrebbero potuto compromettere la sua esistenza senza risultato. Per prima cosa capì di doversi privare del cavallo la cui presenza poteva essere facilmente avvertita, mentre in quel frangente era indispensabile mantenere assoluto silenzio. Apparire da solo dinanzi a quella masnada che aveva teso la vile imboscata avrebbe solo significato di andare incontro ad una morte sicura. Eroica quanto si vuole, ma sempre morte e Terenzio pensava che a mettere la parola fine alla vita c’è tempo e che questa meravigliosa avventura val sempre la pena di godersela fino in fondo. Terenzio aveva compiuto da pochi giorni il suo trentaduesimo compleanno. Un’età per quei tempi già rispettabile, specialmente per un soggetto impegnato in una vita movimentata, nel corso della quale aveva dovuto affrontare insidie e battaglie, scontri all’arma bianca e scampare da malattie insidiose, che solo la sua robusta costituzione fisica aveva consentito di superare senza doverne portare segni o conseguenze debilitanti.

Le vicissitudini: la malaria – Nelle paludi attorno a Ravenna aveva contratto anche la malaria ma era stato fortunato; il Direttore dell’Ospedale militare (optiovaletudinarii) dell’allora capitale dell’Impero, reduce da un periodo di congedo, si trovava fortunatamente in quei giorni in servizio ed era un bravo specialista per la cura di quella grave malattia. La diagnosticò subito e intervenne con le consigliate pozioni dell’epoca. Terenzio se l’era cavata così con poco (ma forse era solo una terziaria benigna…) ed era guarito tornando rapidamente al suo reparto.

La ferita in battaglia – Era stato anche ferito più volte, nell’ultima delle quali, proprio nella battaglia di quindici anni prima contro i Burgundi sempre sotto il comando di Ezio, una freccia lo aveva colpito di striscio ad un polpaccio. Quella volta fu dura: l’assenza di medicine decisive contro le infezioni aveva procurato un grave pericolo di cancrena, ma come sempre il Buon Dio lo aveva aiutato a superare il pericolo ed a tornare in pieno essere. Utilizzando misteriose preparazioni di un impasto contenente una poltiglia di particolari funghi, la profonda ferita causata da quel dardo maledetto si era rapidamente richiusa e la febbre iniziale era scomparsa.

La conversione al cristianesimo – Terenzio per questo era diventato credente, un buon cristiano in un mondo pervaso da eresie, da rigurgiti pagani e da un ateismo strisciante che addormentava le coscienze incapaci, sotto il suo triste dominio, di riconoscere l’origine e il destino dell’uomo. Per non parlare della bellezza del creato, ma a questo non era facile pensare in tempi travagliati come quelli… Eppure allora la natura e l’ambiente, ancora non devastati dall’uomo, erano davvero meravigliosi anche in quei luoghi pur se nascosti e appartati. Non si perse dunque d’animo.

Abbandona il cavallo – Il cavallo era certamente ingombrante in quel momento. Ripromettendosi di recuperarlo appena possibile e tolta la gualdrappa, lo lasciò libero. La povera bestia, che aveva corso tutta la notte, non se lo fece ripetere due volte e, dopo una sgambata di gioia, si mise a brucare l’erba come una capretta tanta era la fame arretrata, certa poi di potersi dissetare a dovere avvertendo la tranquillizzante presenza del vicino corso d’acqua. Sicuro dunque di poter facilmente recuperare il suo cavallo, Terenzio si alleggerì delle cose più pesanti: l’elmo, lo scudo e il pilum, nascondendoli in un punto ben preciso della boscaglia cresciuta sulla riva del fiume, addentrandosi nella stessa per tornare vicino al guado. Gli assalitori erano ancora lì. La luce del giorno ormai spuntato consentiva di vedere anche da lontano: la scena che si presentò ai suoi occhi era orribile. continua

Morte di Didimo – disegno di Lorenzo Sabbatini

28 aprile 2020

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