Come prima destinazione mi spedirono in quel di T***, sede periferica della Mutua di Macerata (quattro impiegati amministrativi, un commesso tuttofare, l’ambulatorio, i sanitari a turno, due infermiere fisse) con i pregi e i difetti di un agglomerato minimo e raccolto. Vi si respirava un’atmosfera serena e familiare, nei limiti della tolleranza umana, anche in momenti di grande affanno operativo, come, a esempio, nei giorni del mercato cittadino.
I cognomi stravaganti
In qualità di tirocinante fui destinato agli inizi al disbrigo delle pratiche dello sportello al pubblico; in tale mansione avevo come “secondo” un ragazzone di un quintale e rotti: Franco T., fisico possente, camicia sbottonata e maniche arrotolate fino al gomito anche in pieno inverno, perenne sigaretta accesa all’angolo della bocca, sudorazione abbondante. Voce da basso profondo, presenza ingombrante contrappuntata da un cuore tenero come un panetto di burro. Si ridacchiava tra di noi, con puerile complicità, nel leggere tra la clientela cognomi come Lassalandà, Sparisci, Misericordia, Pippa, Pagnotta, Sprecacè (sic!).
Gli strafalcioni
Si dovevano accettare pretese e angherie da parte di gente strana, ma sorridendo sottecchi, scambiavamo cenni di intesa al sentire strafalcioni come quelli dell’operaio di una nota pelletteria del posto deciso a consultare un medico, per la moglie che si lamentava per i “dolori romantici” o per “le ‘mministrazioni un moccò lende” – O anche aderire alle insistenti richieste del colono/mezzadro che, pur di ottenere l’assistenza mutualistica, asseriva di essere stato punto al pollice della mano mancina da un insetto “estraneo”– Come se esistessero insetti di famiglia e meno! Oppure ascoltare le assurdità di chi, scegliendo lo specialista per una visita “all’occhj”, chiedeva chi fosse il “culista” di turno, avendo sentito parlar bene di un certo“Dottor Mutande” (Mutani) di Macerata che “fadigava llì”. A volte si presentava la vecchina con le scatole dei medicinali acquistati nella vicina farmacia, che veniva a informarsi su quante “pindole” o “capuzzole” doveva inghiottire e quante volte al giorno; e se le supposte erano davvero così “rànciche da gnuttì” come le era stato detto da una “vicinata”… Cose di quotidiana fruizione.
La “vardascia” di campagna
Un mattino Franco T. non ce la fece a sopportare le insistenze di un petulante mutuato, e dando un urlo da belva ferita, esplose battendo il pugno sul ripiano di compensato del bancone. Lo sfondò, letteralmente. Rimase invece molto lusingato quella volta che una formosa “vardascia” di campagna, in vena di complimenti, soddisfatta delle risposte ai suoi quesiti e forse colpita e impressionata dall’aspetto di quell’insolito sportellista, gli disse: “Si’ più strutto tu, de li camerieri de li caffè granni de le città granne!”, un riconoscimento che secondo lei era molto più di una semplice cortese adulazione. In anni di permanenza a Roma, il Franco aveva giocato a rugby nel ruolo di pilone esterno in una squadra di semiprofessionisti ed ora, relegato in un buco di sezione territoriale come questa, si sentiva ovviamente sacrificato e imbrigliato nella sua debordante vigorìa fisica.
La vedovella di mezza età
Mangiatore formidabile, stava a pensione da una vedovella di mezza età, che lo trattava come un figlio acquisito e lo rimpinzava con dei fenomenali piatti di spaghetti al ragù e teglie straboccanti di… vongole, anche più volte alla settimana. Vero tombeur de femmes, aveva sempre intorno un corteggio di pulzelle, di onorabilità più o meno comprovata le quali, quando non lo importunavano a mezzo telefono, venivano a trovarlo direttamente in ufficio con i pretesti i più scontati, con il disappunto e le reprimende del Capo-ufficio, che non vedeva di buon occhio questi abboccamenti in un luogo frequentato per lo più da una particolare clientela bisognosa di cure e assistenza. Franco T. si beava di questo suo stato di perenne grazia e, un po’ guascone, raccontava in giro vere o presunte avventure di dongiovanni di periferia, con il suo vocione da Sparafucile, infiorando le grevi espressioni di stampo romanesco con grasse incoscienti risate. Spaccone ed esagerato in tutto.
Le visite a mammà e il ritorno con le cibarie
Nelle ore di libera uscita, quando non aveva impegni amorosi o non si immergeva nell’hobby della pittura, andava a trovare la “mammà” cui era molto affezionato; la signora, una volta in pensione, dopo una vita vissuta come insegnante tra i banchi della scuola, si era ritirata in un paese delle nostre zone di montagna. Di là Franco tornava in sede con sporte colme di ogni genere di cibarie (salumi, caci, verdure e frutta di stagione) che andavano a integrare il trattamento alimentare che la vedovella quotidianamente gli riservava.
Gli hobby della pittura e della pesca
Ho accennato all’hobby della pittura. Diciamo che Franco scaricava su tela crucci e inevitabili tensioni, ottenendo effetti di un espressionismo astratto, fatto di grandi stesure di colore grumoso, con preponderanza dei rossi, dei gialli squillanti, dei blu elettrici. Creazioni che, con somma immodestia, definiva “le mie croste di classe”. Si dedicava anche alla pesca di acqua dolce, con scarsi risultati. Tuttavia un cavedano di 20 centimetri, beccato dopo lunga e paziente attesa, non era mai inferiore, a suo dire, al mezzo metro di lunghezza. Ma la vanteria spicciola sembra essere un vizio assai comune a quanti esercitano questa attività sportiva. Strimpellava anche la chitarra, conoscendo i tre o quattro accordi fondamentali, ma, in definitiva, i risultati erano pressoché identici a quelli della pittura.
La bottega antiquaria a Civitanova
Sapeva apprezzare a suo modo le “cose” belle, il che lo convinse, una volta uscito dalle costrizioni dell’ufficio e trasferitosi a Civitanova Marche, ad azzardare, in una traversa del centro, l’apertura di un negozietto di antiquariato. Per qualche tempo continuò a restare alle dipendenze dell’Istituto, con una nuova qualifica, quella dell’ispettore esterno, che gli consentiva di muoversi a suo piacimento, senza subire la stretta osservanza dell’orario e di una disciplina gerarchica mai tollerata.
“Lo Re” e la lancetta
I “pesciaroli“ di Civitanova lo accolsero con simpatia e lo marcarono subito con il soprannome de “Lo Re”, forse per quel suo incedere spavaldo, il vocione da cantante lirico che scaturiva dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza. Dopo un periodo di necessario assestamento, avendo ingranato con gli affari, si comperò una vecchia “lancetta” di cui – come suo solito – diceva mirabilia, con la quale andava a pescare con ami e rete a strascico a pochi metri dalla riva, non arrischiandosi troppo a largo per le precarie condizioni del fasciame. “Per non creare inciampi alle altre imbarcazioni” – diceva a sua scusante.
Il… salvataggio di una brunetta
Anzi, una volta, con il mare forza… due, il natante cominciò inevitabilmente ad imbarcare acqua e Franco, che aveva a bordo una brunetta, una sua conquista, tutta curve e moine, dovette gettarsi a nuoto con la fanciulla terrorizzata, appesa al collo. Molti lo ricordano emergere dalle acque, novello mitico Nettuno, lucido e gocciolante come un ippopotamo fuori dello stagno. Quasi a formare un gruppo marmoreo di ispirazione neoclassica. Era immenso con la sirenetta zuppa e infreddolita acciambellata fra le possenti braccia; negli occhi gli si leggeva una espressione tra il divertito e lo scocciato per la figuraccia rimediata. I pettegoli del posto dissero che lo Re quella volta nella rete “c’era cascato issu”, poiché la ragazza divenne in tempi brevi sua legittima consorte… Franco T. asserì per lungo tempo che si era trattato solamente di un malaugurato incidente di navigazione dovuto a uno scoglietto affiorante non visto o alla vela stracciata dal vento e che, se non altro, come “Re del mare”, aveva fatto onore all’appellativo assegnatogli dai portuali.
La fine del racconto
Non ho avuto più modo di incontrarlo in giro, ma penso che, raggiunta l’età del definitivo pensionamento e trasferitosi altrove, si sia dedicato completamente all’attività a lui più congeniale, quella del commercio e della pesca con l’amo, praticata dagli scogli di un molo qualsiasi. Superfluo dire che le sue vittime sono esemplari che pesano dal chilo in su! E le cassapanche tarlate accatastate nella sua botteguccia di “antiquario” risalgono senza ombra di dubbio alcuno (“me possino cecà’” avrà detto) al sedicesimo secolo o giù di lì… E le tele di sua produzione, così dense di colore, le avrà vantate certamente come opera postuma di un misterioso autore francese dei primi del Novecento…
Goffredo Giachini
30 dicembre 2019