Il professor Enzo Mancini è un insegnante a riposo, storico per passione e simpatizzante del “Centro Studi San Claudio al Chienti” di Corridonia (MC). Ha alcuni libri all’attivo. Le sue risposte alle mie domande sono “riepilogative”, ossia dirette a chi non conosce nulla della materia, sulla quale sono stati già stati pubblicati diversi volumi e articoli.
Prima dell’abbazia di San Claudio che c’era nell’area?
“In epoca romana ci doveva essere la città di Pausula: si suppone in base a qualche iscrizione trovata in loco su pietre riciclate; se non era proprio lì non doveva essere molto lontana. Bisogna però chiarire che a San Claudio non ci sono stati mai monaci. Il termine ‘Abbazia’, affibbiato probabilmente dalla curia di Fermo, testimonia comunque il processo di ‘damnatio memoriae’ che ha subito il territorio, specialmente sotto lo stato pontificio. Intendiamoci, io sono cattolico praticante, ma so bene che anche i santi dicevano bugie quando lo ritenevano a fin di bene, per non screditare a esempio Santa Madre Chiesa. Figuriamoci poi quelli che sotto la tonaca avevano anche l’anima nera”.
Da chi e quando fu fatta edificare?
“Senza la teoria di Giovanni Carnevale è un mistero insolubile. Secondo Carnevale fu fatta costruire da Carlo Magno per sostituire la vecchia cappella diventata inadatta alla corte carolingia. Le fondamenta della vecchia cappella affiorano ancora a trecento metri a est dell’attuale chiesa. Da ricordare che in questo edificio si conservava ‘la capa’ di San Martino, il mantello che aveva tenuto per sé: prima di allora non esisteva il termine ‘Cappella’ per indicare una piccola chiesa. L’edificio che oggi vediamo è la ‘Nova cappella inter vineta’, così chiamata da Alcuino di York, l’Aula Regia di Aquisgrana. Fu costruita da maestranze provenienti da Siria o Palestina, forse dagli stessi soggetti che dovettero interrompere la costruzione di ‘Kyrbet al Mafjar’, presso Gerico, a causa di un forte terremoto, edificio che ha identiche caratteristiche architettoniche. Questi muratori costruivano secondo dettami bizantini, Bizantini che erano stati scalzati solo nel 637 dagli Arabi nell’area siro-palestinese. La nuova cappella fra i vigneti fu costruita nel luogo natale di Carlo Magno e fu consacrata nell’anno 896. Poco dopo con identico stile furono costruite molte altre chiese (Ndr: vedi La rucola n° 254 pag 21), parecchie ancora in piedi nel territorio umbro-marchigiano. Questa ipotesi proposta da Carnevale spiega perfettamente la nascita dello stile romanico in Italia e in Europa poi: senza don Carnevale la nascita del ‘Romanico’ resta un enigma storico insolubile”.
A quali esigenze dell’epoca rispondeva l’edificio?
“La ‘Aula aquensis’ serviva ad accogliere la corte carolingia per le solennità religiose. La famiglia reale vi accedeva tramite un camminamento esclusivo direttamente dal palazzo reale, circa 400 metri a est. C’era un corridoio sopraelevato su colonnato (che crollò per un terremoto pochi anni dopo la sua costruzione) e un percorso sotterraneo che portava all’interno della chiesa. La chiesa superiore non era separata come oggi ma serviva da matroneo, ci andavano le donne, passando per la scala a chiocciola delle torri, unico accesso al piano superiore allora”.
Spieghi la questione della presunta enclave.
“San Claudio non è un’enclave ma si trova al confine della diocesi di Fermo, che arriva a nord fino a Potenza Picena. Probabilmente la diocesi di Fermo fu premiata per la fedeltà dei Guelfi Fermani (Firmum Firma Fides) in confronto ai Ghibellini di Macerata che nel 1212 danneggiarono l’edificio rompendone la cupola sopra il matroneo. Dopo questo danno la chiesa fu riparata in breve, col beneplacito di Federico II; ci fu la prima grande ristrutturazione: fu separato il matroneo dalla chiesa inferiore e fu costruito un accesso esterno alla chiesa superiore, quello attuale, e un portale in pietra d’Istria simile a quello del Duomo di Fermo, che è dello stesso periodo”.
Nei secoli i luoghi hanno subito periodi di oblio, incuria e abbandono?
“Con la fine dei Carolingi la cappella fra i vigneti perse importanza e fu depredata già prima degli Ottoni, ma almeno fino a Federico II il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero doveva essere legittimato dall’incoronazione ‘In solium’, sotto l’arco all’entrata della chiesa inferiore, costruito sopra la tomba di Carlo Magno (vedere medaglioni e monete che raffigurano gli imperatori sotto il Solium). Non sono al corrente di tutti gli eventi di spoliazione ma posso ricordare che se la chiesa è dedicata a San Claudio i locali contadini l’hanno sempre chiamata ‘San Chiodu’, probabilmente per aver ospitato la ‘Sacra lancia’, prodotta in parte con un intero chiodo della croce di Gesù Cristo. La sacra lancia fu simbolo del Sacro Romano Impero e oggi si conserva nella Schatzkammer dell’Hofburg di Vienna. In passato e anche oggi si confonde con la lancia di Longino, che invece era un “Pilum” romano. La sacra lancia era ritenuto un talismano potente che conferiva l’imbattibilità all’esercito che ne fosse in possesso. Ma come esempio di depredazione posso parlare del portale bronzeo che si trovava all’ingresso della chiesa inferiore. Ora si trova ad Hildesheim, nella bassa Sassonia, ufficialmente costruito in loco dal vescovo Bernoardo (Bernwald). Questo portale per la storia ufficiale fu fuso nel 1015, mentre la chiesa era in costruzione, perché fu consacrata nel 1033. Curiosamente la chiesa di Michaeliskirche di Hildesheim possiede quattro torri cilindriche ai quattro lati ma chi gli sta davanti ne vede solo due, come san Claudio. All’interno conserva anche una colonna di bronzo (Christussaule) che, sullo stile della colonna Traiana, riporta come un fumetto la vita di Gesù. Dice Carnevale che il portale ha le dimensioni che combaciano perfettamente con l’entrata inferiore di San Claudio e che sul manufatto la zona dove in altri portali si poneva la data e l’autore è stata limata. Sostenere che quel portale bronzeo sia stato fuso agli inizi dell’XI secolo nella bassa Sassonia è semplicemente ridicolo. Ne erano capaci solo le fonderie di Costantinopoli. Talvolta si spostava tutta la bottega (artista ed operai) per evitare le difficoltà del trasporto e i rischi legati al viaggio per mare dei pesanti manufatti. E ci tenevano a mantenere il monopolio della loro arte. Si pensi a come sono riusciti a mantenere il segreto del ‘fuoco greco’ di cui tutt’oggi, nonostante i progressi della chimica moderna, nessuno è stato capace di trovare la formula. Ora il portale bronzeo di Michaeliskirche è considerato dagli addetti della storia dell’arte il massimo esempio, il culmine dei portali bron zei di cultura bizantina. Esso illustra la storia della salvezza: per spiegare appieno il significato dell’opera ci vuole addirittura un teologo. Lo ha fatto Benedetto XVI. Attribuire al solo Bernoardo, fosse stato anche un genio, la produzione di questo portale è semplicemente ridicolo. Pensando inoltre alle date di costruzione del portale e della chiesa mi viene spontaneo pensare che non fu costruita la porta per chiudere l’accesso alla chiesa, ma fu costruita la chiesa per metterci davanti quella porta!”.
Come si possono spiegare i vari ammanchi e “smarrimenti” di reperti e oggetti?
“Sia a San Claudio che in tutta l’archidiocesi di Fermo molti reperti sono andati dispersi non solo per incuria e ignoranza, ma io credo anche deliberatamente. Dopo il 1861 le sovrintendenze in teoria sarebbero dovute funzionare ma quello che si è trovato a san Claudio e altrove, è sparito spesso senza lasciare traccia. Nel 1998 andai all’Archivio di Stato di Macerata con la speranza di trovare qualcosa su san Claudio. Ci trovai solo il mio libro che avevo pubblicato solo due anni prima: Aquisgrana Restituta. Agli inizi del XX secolo la chiesa di san Claudio era diventata un magazzino agricolo e le torri un silos. Con il restauro del 1926 il vescovo Carlo Castelli si appropriò di reperti di cui poi non si è saputo più niente. A quella data l’edificio a lato della chiesa era la residenza abituale del vescovo di Fermo. Quello che i parroci, non solo di San Claudio ma di tutta la diocesi, trovavano di antico veniva portato alla curia di Fermo, anziché alla Sovrintendenza come sarebbe dovuto essere. Quando divenne vescovo Cleto Bellucci il piano terreno della curia di Fermo era pieno di reperti, ma non catalogati come doveva essere. Quando terminò il suo vescovato il locale era sgombro. Certo qualcosa fu utilizzato nel museo diocesano di Fermo, come la casula di Tommaso Becket, che non si sa come ci è arrivata, ma faccio fatica a pensare che sia tutto lì. Anche perché il segretario di Bellucci fu fermato alla dogana di Ponte Chiasso con due miliardi di lire circa. Il malcapitato consegnò i documenti del vescovo, così sui giornali comparve la notizia che era stato fermato il vescovo. Ma i soldi chi se li prese? Poi lo scandalo fu insabbiato, come se non fosse successo niente. Ma che si erano venduti in Svizzera? Boh!”
Se si disponessero fondi cosa si potrebbe trovare scavando nei campi attorno l’abbazia?
“Credo sia rimasto ben poco ma non escludo che qualcosa si potrebbe ancora trovare. Comunque, se lo scavo non viene fatto da soggetti competenti, leali, che tengano conto della teoria di Carnevale, meglio che resti tutto sotto terra, in attesa di tempi migliori, cioè quando si riterrà importante conoscere la verità. Per ora la teoria di Carnevale è sottoposta a ostracismo a livello universitario per oscure ragioni. Forse perché gli accademici non vogliono saperne di ristudiare tutto daccapo, ammettendo di aver preso grandi cantonate”.
Quali sono i particolari curiosi che farebbe notare dentro e fuori l’abbazia di San Claudio a un viaggiatore attento, magari proveniente dall’estero?
“Il pavimento della chiesa inferiore, nonostante i tanti rifacimenti, si trova ancora più di un metro sotto il livello esterno. Delle numerose ristrutturazioni non si sa quasi niente in sede di Sovrintendenza, che in teoria doveva dare i permessi e controllare. All’esterno il letto del Chienti è stato deviato: all’VIII secolo probabilmente l’edificio si trovava in un’isola fluviale; forse a nord dell’edificio poteva esserci un canale artificiale, costruito ampliando un fosso che sicuramente c’era naturalmente e che confluiva nel Chienti dove fino a pochi anni fa c’era la ‘vurghiella’. È curioso che i contadini avevano un nome per questo fosso, che in italiano suona ‘barchiello’, che indica una piccola imbarcazione trainata da buoi in un canale. Nome che si è mantenuto per 1200 anni! L’Università di Camerino ha rilevato parecchie deviazioni del letto dei fiumi lungo la valle del Chienti, sia del ramo principale che dei suoi affluenti, su cui ha relazionato in una conferenza del 2019. C’era un porto canale non lontano dall’attuale stazione di San Claudio; c’erano diversi canali artificiali e mulini ad acqua: uno di questi ha lavorato fino a pochi anni fa, finché erano vivi i proprietari. L’assetto attuale del letto del Chienti fu raggiunto deviando il suo corso nel Fiastra nel 1794, come attesta una lapide ancora presente all’entrata del ristorante. Prima i due fiumi si congiungevano dopo Sarrocciano, prima di Villa san Filippo. Nella colonna subito a destra dell’entrata alla chiesa superiore sono tuttora ben visibili le tracce della buca in cui nel 1926 i muratori trovarono una capsula, una cassettina, che fu immediatamente consegnata al vescovo Carlo Castelli, (testimonianza raccolta personalmente). Del suo contenuto non si ha nessuna notizia: sono convinto che contenesse qualcosa di importantissimo per ricostruire la storia di questo edificio”.
Un cenno su chi sono e di quali aspetti si sono occupati coloro che hanno scritto sull’Abbazia?
“Forse qualcuno mi sfugge, ma io conosco questi tre. Giuseppe Rossi, architetto di Macerata, prima del restauro del 1926, riteneva che l’edificio fosse da ascrivere al VI secolo, quando l’area era sotto il controllo Bizantino. La sua bozza di come doveva essere l’edificio in origine fu certamente utilizzata nel restauro, contribuendo a complicare le caratteristiche architettoniche. Il professor Bojani dell’Università di Firenze, su invito del parroco don Benedetto Nocelli, studiò per almeno un mese l’edificio verso il 1970; ne ricavò una pubblicazione ma non pervenne a risultati precisi; a voce ammise candidamente di non averci capito niente. Giovanni Carnevale: la sua teoria non solo colma un vuoto di cinque secoli (a sentire gli storici ufficiali dai tempi dei Romani fino ai tempi di san Francesco sul nostro territorio sarebbero vissuti i fantasmi), ma fornisce anche una spiegazione logica alla nascita e allo sviluppo dello stile Romanico, che resterebbe altrimenti un enigma irrisolvibile”.
Spieghi al lettore la vicenda dell’elefante sepolto nei dintorni.
“Negli anni del boom (1960) due persone scavavano pozzi per le fondamenta di nuove case. Trovarono casualmente nella benna cilindrica un enorme dente. Andarono a vedere e dissero di aver visto ‘Un animalacciu co’ le còrne’. Il terreno era incoerente e pericoloso, il proprietario non voleva ritardi, così si procedette alla costruzione. Quando scrivevo ‘Aquisgrana Restituta’ ebbi l’intuizione che i due avrebbero potuto aver visto lo scheletro di un elefante, ma uno di loro era morto per una grave forma di diabete. Andai allora dall’altro che ancora viveva. Solo tre mesi prima aveva fatto pulizia nella sua caotica officina e aveva buttato via anche il pezzo di dente che aveva conservato per quasi quaranta anni. Era la metà di quello che aveva trovato: l’altra metà l’aveva regalata a un amico che era anche lui morto. Allora lo feci salire in macchina e lo portai all’Università di Camerino, dove si trovava il cranio di un elefante preistorico (e credo sia ancora là ma in zona rossa). Il testimone disse che il dente che aveva trovato era il molare e che l’animale che aveva visto nel pozzo era quello e che aveva scambiato le zanne per corna. Se si trovasse lo scheletro e la datazione del C 14 portasse a fine VIII – inizio IX sarebbe matematico che si tratti di Abul Abbas e la storia sarebbe da subito da riscrivere. Io però non sono autorizzato a dire dove si trova questo scheletro; spero sia ancora lì, sempre in attesa di tempi migliori”.
Eno Santecchia
16 dicembre 2019