La mattina entrava a passo veloce taccheggiando e andava a sedere direttamente dietro la scrivania, dopo aver rivolto un saluto frettoloso ai colleghi di reparto. Appoggiava a terra le borse all’apparenza voluminose e straripanti di una misteriosa paccottiglia di “cose” e quindi spariva letteralmente sotto il piano del tavolo da lavoro: a controllare, a rovistare, a smistare il contenuto delle sacche di anonima plastica bianca. Poi tornando in superficie con un funereo grembiule, se lo infilava allacciato da sopra la testa, cercando di non guastare l’elaborata crocchia di capelli corvini che incorniciavano i lineamenti di bruna siciliana, un tempo probabilmente intensi e intriganti.
La signora Sciortino
Sedeva al posto di combattimento la signora Sciortino e iniziava la giornata senza sussulti o intemperanze caratteriali, come la origine meridionale poteva lasciar intendere. Così, in un piattume esistenziale, in un continuum di amorfa inespressività, che si riaccendeva solo quando si profilava la possibilità di una bisbocciata tra colleghi, in occasione del compleanno dell’uno o del pensionamento dell’altro, con il prevedibile rituale di commiato.
Ghiotta di bignè e coca cola
La signora Sciortino allora si abbuffava di bignè e di cannoli alla panna, alternando all’azione masticatoria bicchieroni traboccanti di coca cola o di chinotto. Si appoggiava con molta nonchalance a uno dei pilastri di sostegno dell’ampio salone di rappresentanza all’ultimo piano dello stabile; se ne stava in disparte con un calice colmo di schiuma, tenuto in bilico con la sinistra e i pasticcini biecamente infilzati sull’altra mano, uno per dito. Inosservata, masticava velocemente e con ingorda voluttà, si faceva paonazza in volto, con lo sguardo lucido e malizioso, e sghignazzava improvvisamente, perso il consueto controllo. Ballava l’ampio seno nel gorgoglio della risata, facendo tintinnare le vistose collane di corallo o di ambra con le quali la madama era solita agghindarsi. Dovevano essere questi gli unici momenti di rosea leggerezza in un alternarsi di profondo grigiore quotidiano.
Scappati dalla Sicilia…
Il marito della signora, medico originario di Piazza Armerina, si era trasferito nelle Marche e qualcuno mormorava che vi fosse stato costretto per inesplicabili motivi connessi all’esercizio della professione. Le male lingue insinuavano che, un certo giorno, il dottore aveva trovato sul tavolo dell’ambulatorio, un paio di guanti con un uccello morto. Inequivocabile avviso malavitoso di possibili future rappresaglie per un qualche “procurato sgarro”. Adesso faceva il sanitario/burocrate in un ente assistenziale della provincia.
Una figlia disabile e un bravo figliolo
I coniugi, tanto simili per i lineamenti pesanti, accentuati nel consorte da candidi capelli tagliati a spazzola, quanto diversi per indici caratteriali, avevano una figlia di undici anni disabile che assorbiva totalmente il loro tempo, al di fuori dell’impegno lavorativo di ufficio. Nel caso specifico, muoveva a commovente comprensione l’abnegazione di un altro figlio ventenne, studente universitario che – in assenza dei genitori – seguiva con amorevoli cure la piccola. Durante la permanenza a Macerata, riuscirono a collocarla in un Istituto specializzato di Porto Potenza Picena, risolvendo parzialmente una serie di logiche problematiche che derivavano dalla dolorosa situazione.
Un lavoro… soporifero
La Sciortino, indossato dunque il funereo grembiule di ordinanza, si immergeva nel lavoro che, in definitiva, era quello di trasferire i dati anagrafici dei nuovi assistiti da un tabulato meccanografico alle tessere di pertinenza. Una semplice operazione di copiatura da farsi – possibilmente – in bella calligrafia, come suggeriva il capo-reparto. All’epoca (anni ‘70) non era possibile fruire di una precisa sequenza tecnica che sostituisse in toto la mano dell’uomo. La Sciortino, nel corso della mattinata, aveva frequenti parentesi di “abbiocco” e, mantenendo come incollata la penna biro tra l’indice e il pollice della mano, abbassava il capo e le palpebre, viaggiando sull’onda di fascinosi trascorsi di giovane erede di una probabile stirpe baronale del sud. Di conseguenza, sulla pagina bianca del modulo da compitare, a volte potevano comparire piuttosto che le generalità dell’interessato, lunghi ghirigori ondulati (una specie di tracciato da E. C. G.), che variavano per lunghezza e intensità, a seconda del grado di assopimento raggiunto dall’impiegata.
Mercoledì maceratese, giorno di mercato…
Dei begli anni di lusso e di spensieratezza le erano rimasti, diceva, l’amore sviscerato per i gioielli in genere, gli orecchini vistosi, le broches chiassose e la irrefrenabile attrattiva per i dolcetti. Una voracità di sicura origine psicosomatica, riferibile alla necessità di sacrificare nell’ambiente domestico se stessa e i congiunti alle pressanti esigenze della bimba malata. Nei giorni di mercato, la signora Sciortino usciva di soppiatto dalla sede per recarsi a far compere e, dopo un considerevole lasso di tempo trascorso tra negozi e bancarelle di occasione, se ne ritornava serafica e taciturna, trascinandosi appresso tre o quattro sporte ricolme di generi alimentari o di capi di vestiario spicciolo.
Le calze grigio fumé e il capo reparto miope
Una volta, dopo una delle solite incursioni, arrivò in ufficio con un paio di calze color grigio fumé, adorne di una vistosa lavorazione traforata all’altezza del polpaccio. Indossate da una donna di corporatura robusta e con ineleganti scarpe nere a mezzo tacco, il tutto risultava il non plus ultra del cattivo gusto e della pacchianeria paesana. Il capo-reparto, famoso per le gaffes connesse a una cronica miopia, notò qualcosa di insolito nella deambulazione della ex nobildonna sicula e, memore di un precedente infortunio in cui la stessa aveva battuto le ginocchia restando fuori servizio per circa due mesi, si piegò sino a terra dall’alto del suo metro e novanta e – con un’espressione tra l’incuriosito e il preoccupato – chiese: “Cosa ha fatto alle gambe, signora? Non sarà caduta un’altra volta, eh!?” Al che la donna, dopo averlo incenerito con una torva occhiata, si rifugiò senza replicare e quanto più celermente poteva, dietro il sicuro riparo della scrivania.
I colleghi malcontenti
Proprio a seguito di queste frequenti sortite mattutine, il capo-reparto raccoglieva il malcontento degli altri dipendenti del settore (specie da parte delle colleghe) che, pur immedesimandosi nella situazione di disagio che la siciliana viveva e in parte giustificandolo con falsi accenti di comprensione, non concepivano che la… nobildonna se ne stesse fuori intere ore, costringendo quando l’uno quando l’altra a “coprire” la vacanza dal posto di lavoro. Il capo-reparto tollerò per qualche tempo le sortite della Sciortino, ben consapevole dei guai familiari che la poveretta stava sopportando. Quando le questioni più pressanti furono risolte con il ricovero della piccola a Porto Potenza, non poté più esimersi dal richiamare la dipendente.
Il mercoledì… fatale
Un mercoledì, fatidica giornata di mercato cittadino, la aspettò sul pianerottolo del reparto, la puntò dall’alto attraverso gli occhiali dalle spesse lenti affumicate, mentre saliva faticosamente le due rampe di scale con in mano le solite borse di plastica, da cui sbucavano cibarie, pacchi, pacchetti, bottiglie… Sbuffava la donna a testa bassa e si accorse della presenza incombente del capo soltanto quando gli fu sotto. Il superiore le fece posare i pesanti fardelli aiutandola ostentatamente e la invitò, con cortese cautela, a seguirlo nel suo ufficio. E lei accondiscese, trafelata e rossa in volto, aggiustandosi le pieghe del grembiulone nero, frettolosamente infilato sopra gli indumenti, richiamando con un tocco veloce e due forcine le ciocche che sfuggivano dalla complicata acconciatura.
Il pistolotto
Il dirigente la lasciò in piedi di fronte alla scrivania e, senza guardarla in viso, le rifilò un solenne pistolotto in cui ricorrevano espressioni come: “…mi è stato riferito che… la invito al rispetto dell’orario di ufficio… soprattutto per i colleghi… sembra che alle undici e mezzo lei fosse ancora in piazza… questo suo comportamento va a discapito della resa lavorativa… altrimenti dovrò provvedere se lei… ecc. ecc.”. La Sciortino assorbì impassibile la lunga reprimenda, continuando a lisciarsi la sopravveste e raddrizzando lo spillone antico realizzato in argento brunito che le guarniva il petto. Un attimo di suspence alla chiusura della tirata poi, con perfetta scelta dei tempi, forzando leggermente la cadenza siciliana e fissando lo sguardo intenso sulle lenti anonime del capo, alitò un leggerissimo: “Dòttore, pe’ ll’amòre de Ddio!”, e se ne uscì in punta di piedi, svoltando per il corridoio che conduceva agli uffici.
L’implicito rifiuto…
Subito dopo, scomparsa sotto la scrivania, si immergeva dentro alle sporte a rimescolare gli acquisti del giorno. Una risposta lapidaria, una dichiarata ostinazione che stava a significare un rifiuto implicito ma categorico alle osservazioni del superiore, un preciso riferimento alla testimonianza incontrovertibile e insindacabile del Padreterno sulla sua completa estraneità ai fatti contestati. Un sottinteso cenno di ammonimento a quanti – compreso il caporeparto – avessero osato proferire insinuanti affermazioni di scarsa operosità. Una maniera originale, ma certamente efficace di chiudere qualunque discorso. Che altri si provassero ancora a suscitare calunniosi sospetti nei suoi confronti!
Goffredo Giachini
22 agosto 2019