Diciassette spettatori contati per sette attori calcolati fanno il prodotto “finito”, completo, del teatro che coincide con le persone stesse, niente più autori da rappresentare, niente più storie da raccontare se non l’Ingegneria Umanistica dell’essere persona, attraverso la geografia della pelle, la tensione dei nervi, le solitudini scritte tra un salto e l’altro sulla desolazione del palcoscenico della vita, la gioia tratteggiata in un gesto, la ribellione e la denuncia con una posa, il fiore del deserto, la sordità dei fiumi e della circostanza, l’urlo vocalizzato in luogo della disperazione, la mamma sempre presente anche quando non c’è, insomma: la poesia totale del corpo-teatro. Già, teatro, fa sorridere ormai questa parola, così inadeguata a comprendere ciò che il “Minimo Teatro in persona” ha realizzato domenica al Teatro dell’Iride di Petritoli. Fuori: sagre e suoni e turisti ingelatati. Dentro: l’altra vita, quella dimenticata, quella per la quale c’è sempre una buona ragione per non esserci, negata anche a se stessi, privata, fastidiosamente autentica, senza dei, spietatamente umana, per non perdere coscienza di ciò che siamo.
I nomi dei nuovi teatri sono: Lorenzo Vecchioni, ovvero la vertigine del vuoto, Alessandro Corazza, ovvero l’acrobazia per trasmettere l’udito, Martina Del Bianco, ovvero la distesa delle canzoni perse, Chiara Marresi, ovvero le corde del suono dell’anima, Jennifer De Filippi, ovvero la fanfara delle emozioni, Elisabetta Moriconi, ovvero la fonte della percezione, Serenella Marano, la matrice dell’attrice. Faber: Maurizio Boldrini, dopo 37 anni di “teatro”, di Scuola di Dizione Lettura e Recitazione, di Ingegneria Umanistica, ha fatto con corpi vivi quello che Bernini fece col marmo tre secoli e mezzo fa, con buona pace degli storici del teatro e dell’arte. Dopo il “Minimo Teatro in persona” non ha più senso parlare di “teatro e il suo doppio”, grazie Artaud!
Patrizia Mancini
2 luglio 2019