In atto pesca professionale per la produzione di farine di pesce

Pietro Cicchetti è da sempre fautore del rispetto della natura in generale, anche se il suo campo è la fauna ittica e l’ambiente che gravita intorno all’elemento acqua. A seguito di letture di articoli, aver visto documentari e compiuto alcuni viaggi, è anche a conoscenza di quanto accaduto nel delta del Danubio, in Romania. È molto preoccupato per il futuro. Della grande quantità di rifiuti prodotta da ogni persona una buona parte non si avvia effettivamente al recupero. Per quanto ci sia una tracciabilità dei prodotti alimentari che consumiamo, non si è del tutto certi della loro salubrità. La protezione di un terreno o di un’area non si limita ai confini superficiali, che si possono bene perimetrare e monitorare, ma bisognerebbe prestare particolarmente attenzione a ciò che non vediamo, ma che interessa il sottosuolo, le falde acquifere in particolare.

È inutile comprare l’insalata proveniente dall’orto appena fuori città coltivato con cura dall’anziano, che vi trascorre gran parte del suo tempo, quando la stessa assume acqua dal terreno contenente metalli pesanti e agenti inquinanti vari.

La pesca sportiva nelle acque interne, ecosistemi chiusi, non è più sostenibile per scopi alimentari, non solo perché la popolazione ittica è in netto calo da diversi anni, ma anche perché il consumo del pescato rappresenta potenzialmente un rischio sanitario per l’assunzione d’inquinanti. La sensibilizzazione delle amministrazioni pubbliche è iniziata da diversi anni, ma solo recentemente ha trovato un parziale accoglimento. La problematica è sorta in virtù delle mutazioni socioculturali degli ultimi decenni. Per entrare nel contesto bisogna dire: le popolazioni che durante l’impero romano stanziavano nell’area del delta del Danubio avevano come principale alimento il pesce d’acqua dolce.

La carpa (Cyprinus carpio) proviene dall’Asia e fu introdotta in Europa nel XIII secolo per scopi alimentari. In seguito fu utilizzata nelle risaie, in particolare del Vercellese, perché si nutriva dei parassiti del riso e delle uova delle zanzare, utile anche nelle zone che si volevano bonificare.

La taglia media per il consumo alimentare di una carpa è di 1 – 1,5 kg, che si raggiunge nel giro di due anni. Siccome nell’acqua dei fiumi e laghi oggi sono presenti sostanze inquinanti in percentuale maggiore rispetto ai secoli scorsi, l’età non avanzata della carpa ha un assorbimento minore di metalli pesanti. L’etnia lipovena vive da secoli tra la Romania e l’ex Unione Sovietica, in particolare nella vasta area del delta del Danubio, dove la pesca intensiva ha ridotto notevolmente la popolazione ittica, suscitando la reazione delle autorità che hanno intensificato i controlli e contrastato in modo incisivo la pesca professionale.

Questo giro di vite ha fatto sì che molti pescatori lipoveni si sono trasferiti sul nostro territorio e, complici alcuni amministratori poco onesti, hanno ottenuto licenze professionali con lo scopo di contenere le specie ittiche alloctone sul Po e nella Valle Padana. Purtroppo costoro non si sono limitati al prelevamento delle sole specie come il siluro, ritenuto dannoso, ma hanno depauperato il patrimonio ittico nazionale.

A causa degli scarsi controlli e della disinformazione, il fenomeno ha raggiunto proporzioni preoccupanti, tanto da causare la perdita del 70% del patrimonio ittico. L’impiego del pescato ha solamente una piccola percentuale per scopi diretti di alimentazione, mentre il vero business è nella produzione di farine di pesce. Questo perché l’approvvigionamento è a costo zero, le farine hanno un molteplice utilizzo e una scarsa tracciabilità. Esse si usano per la produzione di mangimi per il settore zootecnico, quindi in certo senso ci sono riproposte “sotto forma” di bistecche. Oltre al danno ecologico esiste un rischio sanitario al quale siamo esposti a nostra insaputa. 

Prosegue: “La mia preoccupazione è che dopo la presa di coscienza e l’introduzione di normative più severe, il fenomeno si sposti nel centro-sud. Dove pur non essendoci una rete idrica paragonabile al nord Italia, vantiamo laghi e fiumi ricchi di fauna”.

Per quanto sopra Pietro si sta battendo per promuovere il no-kill e una rete di controllo efficace per impedire lo scempio che si sta verificando al nord Italia. I pescatori no-kill praticano la cattura e l’immediato rilascio, avendo come unico trofeo una foto dei grandi esemplari (riproduttori) di carpe, lucci, ecc. aggiornando una sorta di database che consente il monitoraggio specifico di un determinato bacino. Di conseguenza un calo del pescato e degli esemplari degni di nota è facilmente rilevabile, portando alla luce questa problematica.

La carpa erbivora o Amur (introdotta prima del 1400 per tener a bada l’eccessivo sviluppo della vegetazione lacustre) ha molte difficoltà a riprodursi nel Centro Italia e il suo prelievo è un danno grave.

Periodicamente anche dalle nostre parti accadono episodi di bracconaggio ittico, nonostante sia vietata, a differenza del Po, la pesca professionale nelle acque interne. Basti ricordare le reti stese nei laghi di Caccamo, Polverina, Castreccioni (Cingoli) rinvenute negli ultimi anni dai pescatori sportivi e rimosse dalle autorità competenti.

Anche la nostra regione, che vanta ecosistemi invidiabili, è soggetta a questo tipo di rischio. Il fenomeno merita un particolare e specifico controllo che allo stato attuale non è possibile per mancanza di attrezzature e personale addestrato. Quindi l’unica soluzione efficace e realizzabile è una gestione partecipata tra Enti e pescatori sportivi che sono i diretti interessati a mantenere sano l’ecosistema.

Eno Santecchia

9 aprile 2019

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