Racconti vacanzieri sul litorale di Fontespina: tutti al mare!

Negli anni ‘60,  nei mesi estivi, in concomitanza con la raccolta delle barbabietole da zucchero, fui occupato presso lo stabilimento di Montecosaro Scalo. Quando, a seconda dei turni, “staccavo” alle due del pomeriggio, venivo spesso prelevato ai cancelli da certi cugini del Veneto, che per l’estate avevano preso in affitto un appartamento in quel di Porto Potenza Picena.

 

La casetta in riva al mare (quasi…)

La casetta a due piani, fruita dai proprietari per il resto dell’anno, era lontana dal caotico e rumoroso traffico della statale Adriatica, che attraversa la località balneare; era prossima, invece, alla spiaggia, alla quale si accedeva da un piccolo buio tunnel, che passava sotto il tracciato della ferrovia. Non esisteva ancora l’autostrada e i camion erano costretti a transitare in mezzo alle abitazioni dei pescatori potentini.

 

Lo zio Alberto

Lo zio Alberto esercitava la professione di medico-condotto (come si diceva allora) a Trissino, località in provincia di Vicenza, piccolo agglomerato di case abbarbicate in collina; il paese è noto per aver dato i natali a un letterato del Cinquecento, appunto “il Trissino” e soprattutto per essere uno dei feudi della famiglia Marzotto. Lo zio, marchigiano da più generazioni, nato a Morrovalle e da sempre affezionato alle costumanze del piceno, d’estate preferiva alle più mondane località della riviera veneta, le spiagge del centro Italia, economiche e meno pretenziose, dove, in tempi di ferie, calava, armi e bagagli, con tutta la famiglia. Era uno dei tanti pretesti per far conoscere alla moglie (padovana) e ai tre figli un paesaggio diametralmente opposto a quello dei primi contrafforti dolomitici del vicentino.

 

Il conte dalle braghe ónte

Trissino sorge alle falde dell’altipiano di Asiago, è tutto arroccato intorno a un vecchio castello dei conti omonimi; in un’ala del maniero viveva l’ultimo rampollo della progenie dei Trissino, pieno di sussiegose pretese e di debiti pressanti. I concittadini, sbeffeggiandolo nel dolce idioma della zona, lo chiamavano: “il conte dalle braghe onte”, a definire lapidariamente la sua condizione di nobile decaduto. E pensare che, in una non lontana epoca di lussi e di sommo decoro, il nobiluomo – raccontavano – era solito cambiarsi d’abito tre volte al giorno e uscire per il paese con un tiro a quattro e relativo cocchiere.

 

La raccolta delle reti

I proprietari della casetta al mare – durante il soggiorno degli ospiti vicentini – si ritiravano in un angusto locale al pianoterra, da cui, verso il mezzodì, provenivano invitanti aromi di brodetto o di ghiotte fritture di calamaretti e scampi, appena tirati a riva con le “lancette” o con il secolare sistema della “sciabica”. Lo zio, dalla stazza atletica di vecchio giocatore di calcio, partecipava alle prime luci dell’alba al consueto rito della raccolta delle reti, quando gli uomini dalla pelle incartapecorita dal sole e dalla salsedine, quasi accompagnati da un antico ritmo di danza propiziatoria, allungavano e contraevano i muscoli nello sforzo, flettendo il busto all’indietro; agganciavano poi i tiranti delle reti sommerse, puntando i talloni sul bagnasciuga rassodato dal sole dopo le ultime creste della risacca. Un canto di ritmica monodia contrappuntava la gestualità della gente di mare, remota e nuova nel l’andare del tempo e delle onde.

 

Ghiotti di pesce e di ciauscolo

I cugini veneti erano ghiottissimi di pesce, così come lo erano divenuti del “ciauscolo” (di carne o di fegato, poco importava) e del saporito prosciutto nostrano. Di questi prosciutti di montagna lo zio ne aveva acquistati due interi nella zona di Visso e li aveva affidati alla cella frigorifera di un negozio di alimentari nei pressi di casa, per farseli tagliare “a mano”, volta per volta, a seconda delle necessità del desco familiare.

 

Il villino dei Peretti

A Fontespina, frazione di Civitanova Marche. a quel tempo ben distinta dalla cittadina balneare, avevano luogo riunioni collegiali con altri cugini. Questi più ruspanti e conterranei, erano proprietari di un villino che si affacciava sulla statale adriatica, all’incrocio con un vialetto sterrato e spelato che si inerpicava verso la collina, in direzione di “Casa Broccolo” l’unico alberghetto del circondario che potesse fregiarsi di tale qualifica. Poche le camere in dotazione, un mobilio antico e dignitoso, una cucina casereccia e accattivante. Nel villino dei Peretti – tale era il cognome dei cugini morrovallesi – ci si radunava in tanti, tra parenti di ogni età, compagni di scuola, amici, genitori, in una confusione di caratteri e di stili di vita eterogenei, ma che finivano sempre per armonizzare nei momenti di maggiore aggregazione. Una quindicina di persone in tutto, tra ragazzi e adulti – ivi compresi i parenti del Veneto – che diventavano il doppio nei fine settimana o nelle ricorrenze ferragostane.

 

Gli scarafaggi

Tutti si adattavano a vivere nelle piccole, scomode camere da letto distribuite nei due piani e nella soffitta della palazzina, dalle pareti scorticate, con le reti vecchie e cigolanti dei letti in ferro o con i materassi direttamente scaraventati sul pavimento. Non era insolito, nelle notti umide e afose, assistere alle scorribande degli scarafaggi, che sciamavano fuori dalle crepe del pavimento in cotto per nulla preoccupati da tanta presenza umana. Si dormiva in una promiscuità serena e innocente. Si respirava un’atmosfera leggera e spensierata, lontana dai miasmi della città, con l’unica preoccupazione, al risveglio, di ingurgitare scodelle di latte e orzo il prima possibile, per concludere il resto della mattinata tra infiniti bagni di mare alternati a docce ristoratrici (“In acqua almeno due ore dopo mangiato…”  raccomandavano – inascoltate – le madri premurose).

 

La doccia con il sifone di gomma

Quella che era la cosiddetta “doccia” del dopo bagno veniva presa da un volgare sifone di gomma collegato con il rubinetto del bar/pizzeria di Stelvio, raro affollatissimo posto di ristoro nel raggio di una decina di chilometri di spiaggia. Il medesimo sifone che, dopo l’immersione nell’acqua salata (quasi un rituale di antichi sortilegi), serviva a lavare e rinfrescare i dorsi fumanti delle mucche o dei cavalli che i coloni della vicina campagna accompagnavano fin sulla riva per una salutare e igienica strigliata estiva. Anche i contadini  calavano nell’acqua in mezzo alle bestie con i mutandoni di fustagno lunghi sino alle caviglie e le finte canottiere disegnate dal sole sulle schiene magre e sui muscoli induriti dalla fatica. L’acqua creava, talora, strane trasparenze anatomiche intridendo la stoffa delle brache.

 

Lu moscó de li Peretti

La comitiva dei cugini si accalcava sopra uno storico pattìno, pesante come una chiatta, largo e possente sugli scafi rattoppati in più punti. Dei remi erano rimasti due tronconi sistemati alla meglio con supporti di legno, chiodi, colla o larghe fasce di latta, ritagliate da barattoli di  sarde sotto sale. “Lu moscó de li Peretti” comunque stava ancora a galla, seppure a pelo d’acqua (per quanta riuscivano a imbarcarne gli scafi) e serviva soprattutto da punto di riferimento per le nuotate collettive o per le esibizioni di tuffatori più o meno spericolati. A volte, per riportarlo a riva, servivano i muscoli di quattro o sei robusti volontari, giovanotti del posto e bagnini occasionali. Si facevano gare di velocità per arrivare alla “secca” una lunga striscia di sabbia emergente a circa cento metri dal litorale.

 

Il sòr Pino

Nelle giornate di calma piatta e di trasparenza azzurrina del cielo, quando a distanza era possibile distinguere i profili delle coste della Dalmazia, ci si azzardava a raggiungere a piedi questa duna naturale sommersa, camminando dalla battigia al frangiflutti. Tentava la traversata, fra gli altri, finanche il sòr Pino, decano della famiglia, con i suoi ottant’anni e passa, che indossava, si fa per dire, un costume anteguerra grigiastro, liso e sbrindellato, con tanto di spalline e lungo fino alle ginocchia. Un ampio sombrero di paglia sfilacciata riparava il vegliardo dai raggi cocenti del sole agostano, il che serviva a individuarlo fra le tante anonime teste (con o senza cuffia) galleggianti sulla superficie del mare. Immersi fino al collo nell’acqua tiepida vicino alla riva, lo vedevamo avviarsi al bagno dall’alto della piccola scoscesa spiaggetta di Fontespina, come uno scolorito traballante ombrellone in tinta unita.

 

La baby band musicale

Tra i frequentatori del… lido spiccavano per notorietà e simpatia: il maestro Titta, un marchigiano  trapiantato a Roma, il quale aveva formato un complessino di musica leggera con i propri figli e un paio di amici, tutti al di sotto dei tredici anni. Con tale baby-band ci deliziava nei dopocena, eseguendo in riva al mare i motivetti più in voga, con l’illuminazione naturale della luna.

 

Il pittore Sante Monachesi

Gravitava nella zona anche il pittore Sante Monachesi (Santì per gli amici) che si godeva l’estate dei lidi natii in compagnia della bella moglie romana, dal corpo statuario e delle due figlie ancora adolescenti, aggregate di diritto al gruppo Peretti. Partecipava alle riunioni collegiali, con naturale riservatezza, il bolognese Carlo Zecchi, noto pianista e compositore, il quale, una volta rotto il ghiaccio, esplodeva  in tutta la sua sanguigna cordialità romagnola.

 

La vedova toscana

Tra gli adolescenti (e non solo) riscuoteva grande successo una splendida vedova toscana, la quale, incurante di sussurri, pettegolezzi e pregiudizi codini, si esibiva tra gli ombrelloni indossando una specie di sottoveste nera, con la parte superiore traforata, che lasciava intravedere i capezzoli di un paio di seni ancor giovani, pieni e rigogliosi. Quando la bella pisana usciva dall’acqua (la leggera veste incollata alla pelle) e si stendeva voluttuosamente al sole, improvvisamente s’incrementava il passeggio di molti bagnanti di sesso maschile nel perimetro di sabbia in cui ella aveva sciorinato un variopinto telo di spugna. Tutti  smaniosi di puntare lo sguardo in anfratti misteriosi così smaccatamente esibiti e che, all’epoca, venivano in genere pudicamente celati a occhi indiscreti.

 

I sobbalzi sul letto causa treno

Con i miei avevamo preso alloggio in una casupola a ridosso della linea ferroviaria. I proprietari, adeguandosi agli usi, si sacrificavano in un locale a pianoterra e, nei mesi estivi, affittavano i restanti vani cercando di arrotondare gli introiti derivanti dalla magra e rischiosa attività della pesca. Dormivo in una branda sgangherata al piano superiore sotto le travi del tetto e, specie nei primi tempi, sobbalzavo dal materasso ogni qualvolta transitava un treno che – in prossimità della stazione ferroviaria di Civitanova Marche – sembrava intenzionalmente azionare il fischio dilaniante all’altezza del nostro misero alloggio. Avevo trovato nel fondo di un cassettone un tomo vecchio e roso qua e là dai topi (“Tutte le novelle” di Luigi Pirandello, mi pare), che mi aiutava a superare la noia dell’estate, quando stavo tappato in casa nelle rare pause della giornata o vi ero costretto nei pomeriggi di cattivo tempo.

 

Comitive e passeggiate

Comunque il richiamo della comitiva dei cugini Peretti era sempre imperante e insieme si organizzavano gite in bicicletta, passeggiate, merende a base di fette di cocomero o di pannocchie di granturco opportunamente arrostite sul campo. Dopo il mezzogiorno – effettuata la rituale “pennichella” ristoratrice – quando non si riprendeva la serie delle balneazioni, si facevano lunghe scarpinate sui colli circostanti. Una delle mete preferite era la villa di un noto dermatologo romano, anch’esso di origini civitanovesi, che veniva a “passare” le ferie nella terra natale, accompagnato dalla consorte bulgara e da due figli scavezzacollo.

 

I nudisti

I due maschietti, oltre a calamitare l’attenzione degli ospiti occasionali con le loro marachelle estemporanee (da rilevare, fra l’altro, gli interventi di Tarzan, un lupo massiccio e giocherellone), erano soliti scorrazzare nel parco intorno al vecchio casale di campagna ristrutturato,  completamente nudi, secondo le teorie igieniste del padre. Questi era considerato  un tipo a dir poco bislacco e originale. Si diceva, infatti, che i capitolini, nell’assoluta solitaria quiete dei colli dell’Asola, amassero abbandonare vesti e accessori per godere appieno della ventilazione salmastra e iodata, in ossequio a dettami naturisti ante litteram. Nudisti e menefreghisti, raramente scendevano in spiaggia, preferendo quella specie di romitaggio in altura alla “promiscuità della moltitudine”, secondo una felice definizione del dermatologo. Quando ciò accadeva, i suoi ragazzi – e il cane lupo – scalpitavano tra la folla dei villeggianti con i piccoli attributi maschili al vento, sollevando critiche e malcelate proteste da parte di mamme vereconde e pudiche.

Goffredo Giachini

30 ottobre 2018

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