Locale esclusivo, a uso e consumo della popolazione universitaria, era la Casa dello Studente in viale don Bosco, struttura utilizzata come Collegio Universitario. Si ballava nel salone al primo piano, spesso con l’accompagnamento dell’Hot Club. Con questo gruppo si esibiva Jimmy Fontana, che era agli esordi della sua carriera di cantante. Aveva molto successo, specie presso il pubblico femminile, un ragazzotto pugliese – certo Mimì Lo Pizzo – molto bravo ad accompagnare con la chitarra la sua voce calda e baritonale. Era nipote di monsignor Cassulo, Vescovo di Macerata, prelato di indubbio carisma ma che resta nella memoria cittadina per aver fatto una brutta fine, schiacciato da un bus delle linee urbane contro uno spigolo di Palazzo Buonaccorsi.
Una università “tranquilla”
E come non citare le Feste della matricola, quando l’Ateneo maceratese aveva la sola Facoltà di Giurisprudenza e la vita studentesca si svolgeva in maniera innocente e spensierata. Ancora assai lontani, per metodi di vita e mentalità, erano i sommovimenti e le rivendicazioni del fatidico Sessantotto. Autoritario e qualificato il corpo dei docenti, nonostante il parer contrario di tutti quei ‘fuoricorso’ che si rifugiavano presso la nostra Università ritenendola di più agevole accesso, situata com’è in una silente e amorfa città di provincia.
Paolo Perugini il “Pontifex Maximus”
Agguerrito e organizzato il gruppo dei “Principi” della goliardia, capitanati da un “Pontifex Maximus” identificabile, per anni, nella persona storica e pluriblasonata di Paolo Perugini. Sempre vivaci e spiritosi i cosiddetti “codicilli” a carico dei neo iscritti (le matricole) con abbondanti bevute e mangiate a base di bignè e di cannoli alla crema nelle pasticcerie di Pompei o di Venanzetti. Alcuni dei “vecchi” provenienti dal vicino Abruzzo o da altre località del meridione trovavano modo – con tali festini – di risparmiare la consumazione dei pasti alla mensa universitaria.
Nudo al pianoforte
Un neo studente, poi impegnato in veste di giurista e di docente universitario (!), fu costretto a suonare al pianoforte un capriccio di Chopin, nudo come un verme. Un altro, divenuto poi insegnante di storia e filosofia nei Licei dello Stato, fu fatto girare per Macerata su un carretto tirato da altri soggetti mascherati, seduto sulla tazza di un water, avvolto come una mummia egizia in rotoli di carta igienica. Al sottoscritto toccò in sorte di fare l’arbitro in una improbabile partita di calcio tra due compagini ancora più improbabili: Prostitute contro Galeotti. Si giocò nell’ampio spazio di piazza Mazzini, tenuto libero dal traffico per l’occasione. L’incontro finì con un salomonico pareggio e io, inguainato in un impeccabile tight di tre misure inferiori alla mia e rigida bombetta (il tutto carpito dal guardaroba di mio padre) dovetti scappare verso casa velocemente, inseguito da una masnada di strani personaggi in gonnella o in pigiama a strisce, che intendevano “farmi papa”.
Il menagramo
Alcuni giorni dopo, indossata la stessa livrea, me ne andavo a passeggio lungo l’infinito corridoio dell’Università. Con un paio di funerei occhialini dalle lenti fumé auguravo un buon esito a quanti dovessero passare sotto le forche caudine degli esami. Il risultato imprevedibile fu che, nella stessa sessione, proprio a me toccò una solenne bocciatura in Economia Politica con un sonoro quindici… e lo smacco più grande fu che il professore, alla fine, finse di essere indeciso se darmi quindici o sedici! Esempio insolito e punitivo di autojettatura.
La “Battaglia di Fregnano”
In altra occasione, sempre in piazza Mazzini, si organizzò un parodistico processo alla matricola, con tanto di presidente del tribunale, giudici a latere, pubblico ministero e avvocato difensore, il tutto preceduto da un folcloristico corteo in costume. Una volta si allestì una specie di carro allegorico che intitolammo la “Battaglia di Fregnano”, trainato da cavalli, uno dei quali montato dal compianto Arturo Ciotti. Sulle sponde del carrettone spiccavano motti e scritte allusive come: “Evviva la foca, che Dio la benedoca”, o “Noli mingere contra ventum”. L’equipaggio era composto da un manipolo di studenti scalmanati infilati in una specie di corazza di cartone e lunghe mutande di fustagno. Sul capo elmetti residuati di guerra, presi in prestito dal Cirivacco, elmetti che, per aderenza all’epoca del costume indossato, fummo costretti a verniciare a tinte diverse. Inutile riferire gli improperi e le colorite bestemmie dello straccivendolo delle Fosse, quando si vide restituire i preziosi cimeli… restaurati a modo nostro!
Il professor M***
Tra gli insegnanti, spiccava sia per autorevolezza che per stramberia, il professor M*** docente di Diritto Internazionale, che si faceva notare per una cert’aria costantemente assente e trasognata. Si narra che, recatosi presso la barbieria più chic di Macerata, salone una volta sito lungo il corso della Repubblica e gestito da “Guerì de Montelupò”, il docente sedutosi sulla poltrona girevole, raccomandasse al figaro esterrefatto: “Stia attento con quel rasoio, lei sta per acconciare la testa di un genio…”. Superare il suo esame era già una grossa conquista e significava l’aver quasi agguantato la meta della sospirata laurea. Sempre brusco e imprevedibile il prof. M*** era capace di ire subitanee o di atteggiamenti talmente inconsueti da far disorientare anche lo studente più smaliziato.
La sedia fantasma
Una volta toccò al già menzionato compagno di studi G. M., il secchione del liceo, il quale si presentò alla prova di Internazionale come sempre preparatissimo e sicuro di sé. Il professor M*** sedeva dietro la cattedra con il giornale spiegato dinanzi agli occhi. Era immerso nella lettura e non poteva vedere chi c’era dall’altra parte del foglio. Sentito un certo movimento, la voce autoritaria intimò: “Segga! Segga! Cominciamo subito”. G.M. fece per ubbidire, girò lo sguardo intorno e si accorse con sgomento che nella stanza non c’era una sedia, un banchetto, un mobile su cui posare le terga. Giusto per non contraddire l’ordine perentorio del docente, piegando lentamente le ginocchia, appoggiò i gomiti sul ripiano della cattedra e attese che gli venisse rivolta la prima domanda. Quando finalmente il professore si degnò di mettere da parte il quotidiano, iniziò a scaricare una sventagliata di quesiti sul povero G.M., sempre in posizione precaria. Il professor M*** non si era reso conto che lo studente non aveva di che sedersi né questi ebbe il coraggio di farglielo notare. L’esame comunque andò bene, ma l’episodio rimase negli annali della aneddotica universitaria.
I coretti
Negli anni sessanta o giù di lì ebbe a laurearsi uno studente di origini greche, forse il primo extracomunitario iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Macerata. Il giorno del conseguimento del fatidico pezzo di carta fu organizzata una gran festa. Nel bel mezzo dei brindisi Alizot (così si chiamava il greco) su di giri per le abbondanti bevute ed euforico per il titolo conseguito, parafrasando un noto slogan dei “Caroselli” della tivvù, chiese all’uditorio: “Or che bravo sono stato, posso fare l’avvocato?” Al che l’assemblea rispose in un coro unanime: “Vai sicuro, tanto c’è chi lo fa peggio di te…”. Si cantavano per le vie della città canzonacce goliardiche, oppure si biascicavano, con toni da giaculatoria, le serie più elementari dei numeri, dicendo: “Uno e uno due…”. Al che si rispondeva in tono ecclesiale: “Due e una tre…” e via di questo passo, fino alla nausea.
L’Istituto delle Suore
Nel corso delle “feriae matricolarum” si era soliti andare a far caciara dinanzi all’Istituto delle Suore di San Giuseppe, aspettando l’uscita delle ragazze, sotto i rimbrotti risentiti della celebre madre superiora Suor Albina di buona memoria. I più facinorosi intonavano un canto corale che faceva così: “Ulula il vento, ecco là Natascia, tutta tutta moscia, come una galoscia, sul bambù…”. O anche l’altra, più irriverente, che aveva questo altro testo poetico: “ Teresa (Coro: Teresa…) Chi… averebbe mai creduto (Coro: Chi averebbe mai creduto) che tu avessi avuto (Coro: Che tu avessi avuto…) Tre peli nel buco del c…”.
Il coniglio morto in mano a Sisto V
Rimangono nella storia le scaramucce con i colleghi degli atenei di Camerino e Perugia, con i quali si era instaurata una sorta di finta alleanza, fatta di dispetti e di ripicche inoffensive. A Camerino un gruppo di “kamikaze”, nel corso di una spedizione punitiva, riuscì in una impresa che ha dell’epico. Un coniglio morto fu legato al palmo della mano benedicente della statua di Sisto V in trono, sulla piazza principale della città. Di rimando – le responsabilità non furono mai appurate – gli universitari maceratesi trovarono un bel giorno il portone di ingresso dell’Ateneo murato con foratoni a cemento rapido, fino ad altezza d’uomo. E poi bagni, gavettoni, scherzi innocui che raramente producevano lesioni o lasciavano segni.
I “papiri”
Non so se sia tuttora operante la consuetudine di confezionare i cosiddetti “papiri” per gli iniziati. Ai miei tempi il “papiro”, di solito scritto in un latino maccheronico e sconclusionato, diventava spesso, in sede locale, più ruspante, per le inflessioni “pistacoppare” inserite nel contesto. Il documento era infarcito di massime inventate, suggerimenti, spunti riferibili alla vita sociale e politica dell’epoca. Arricchivano il testo vignette e disegni più o meno di soggetto erotico, la biografia del titolare, e sotto la firma e il timbro del Pontefice Massimo, con tanto di sigillo di ceralacca. Opportunamente cosparso di una patina di cera, a imitazione della carta-pecora degli antichi editti, serviva a dimostrare, dietro richiesta degli anziani, che il neo iscritto si era sottoposto alla cerimonia della investitura ufficiale e che, di conseguenza, non era più obbligato a pagare ulteriori pedaggi per l’ingresso in facoltà.
Botta e risposta con il calabrese
Molto rumorosa e intransigente era una comitiva di ragazzi molisani o giù di lì, che non lesinavano scherzi e sfottò, anche ai locali. I maceratesi non si facevano intimidire dagli atteggiamenti spavaldi del gruppetto e rispondevano per le rime a quanti pretendevano di far valere la loro anzianità di… servizio. A un “vecchio” della Calabria che pretendeva rispetto e devozione da una imberbe matricola del posto, sostenendo: “Io ci/ho sette bbolli (a significare che era un venerabile fuoricorso) e poi m’hai da respettà pecchè so ‘nnato a Punta di Leuca…”. Il giovane pistacoppo replicò con strafottenza tutta maceratese: “Allora leuca sta punta e va a farti fottere a casa tua…”.
Goffredo Giachini
26 settembre 2018