Racconta Goffredo Giachini… Il mio primo incontro… fisico con il mondo della musica lirica non fu dei più esaltanti. Il geometra G. B. Cirilli, che abitava nel mio stesso stabile di via Piave aveva rimediato (ignoro per quali misteriose vie) tre biglietti di platea “gratis” per una recita della Carmen all’Arena di Verona!
Partenza in littorina
Con la moglie al momento indisposta, il geometra aveva offerto la graditissima opportunità a me, sapendomi appassionato di musica in genere e di lirica in particolare. A volte salivo nel suo appartamento per ascoltare dischi di opere e di sinfonica, di cui era in possesso. Si partì – Cirilli, il figlio e il sottoscritto – in Littorina, all’alba di un sabato di mezza estate, afoso e appannato nella evaporante foschia del primo mattino. Nel corso della giornata, dopo l’arrivo a Verona, facemmo il nostro giro di turisti di provincia, bighellonando per le vie del centro, abbuffandoci poi di baccalà alla vicentina in un ristorante tipico nei pressi dell’Arena. Menù turistico con prezzi stracciati…
L’Arena di Verona
Entrammo in Arena per tempo, pur avendo i posti prenotati alla fila n° 9 (!) dell’ampia platea, con l’intento di godere, in tal modo, della grandiosità dell’ambiente, dell’eterogeneità della massa di spettatori che, a iniziare dalle prime ore del pomeriggio, si accalcavano alle porte per occupare anzitempo i gradoni dell’anfiteatro. L’attesa era eccitante, acuita dal brusìo che man a mano cresceva di intensità con l’arrivo della gente. Si udivano i primi accordi dell’orchestra ed eravamo tutti in ansia per l’incognita del clima agostano, pesante ed opprimente. Un odore di terra bagnata portato dalle correnti d’aria, sovrastava infatti le profumazioni estive della folla. Non stavo più nella pelle, era la prima volta che varcavo le soglie del tempio della lirica all’aperto per assistere alla rappresentazione di una opera e l’emozione e la meraviglia raggiunsero l’acme quando, spenti i riflettori del proscenio, si accesero nel buio della notte miriadi di lumini tremolanti con un effetto davvero suggestivo e coreografico.
Eravamo in 20mila
Poi, al baluginio delle luci di contorno, le voci di sorpresa e gli applausi scroscianti dei ventimila presenti alla serata. Quando svanirono nel buio i grandi riflettori di sala, in un settore dell’anfiteatro si materializzò miracolosamente una città di legno e di cartapesta, con le case arrampicate verso la sommità della scena. Decine e decine di comparse riempivano le strade, gli spiazzi, le piagge, i vicoli, sfaccendavano mimando cento mestieri, o tenendo per le briglie un animale; correvano per scalette e anfratti, comparendo alle finestre delle case spagnole con le facciate dai vivaci colori. Una vera gioia per gli occhi. Alle prime note dell’orchestra la città fittizia si animava sempre di più. Gli accordi musicali, nell’anticipare temi e arie liriche del dramma della sigaraia spagnola, davano concretezza alla celeberrima sinfonia introduttiva. Qua e là, dalla sommità delle gradinate, scattavano i lampi improvvisi dei flash a interrompere la semibuia tessitura del fondale.
Ecco Franco Corelli
Sul proscenio, la piazza centrale di Siviglia, con la caserma del Corpo di guardia e, da un lato, la manifattura tabacchi dove lavora Carmen. In apertura di scena compare Micaèla a chiedere notizie di don Josè, il bel comandante del presidio. Dopo alcuni accordi vivaci e lo stereofonico squillo della banda militare che annuncia il cambio della guardia “…Ta – ta – ra – ta – tatà…” arrivano i monelli con una gazzarra organizzata a dovere “… Noi marciamo a testa alta come piccoli soldati…” e, subito appresso, i dragoni, in assetto di parata nelle divise multicolori e i chepì. Un uragano di applausi saluta l’entrata di don Josè, nell’occasione il tenorissimo marchigiano Franco Corelli, aitante e di bell’aspetto, nominato nell’ambiente Coscialunga per l’indubbia eleganza nell’incedere coi suoi costumi di scena, nel caso specifico calzamaglia e gambali, prerogativa dell’uniforme militare dell’epoca. Il clamore della platea supera i clangori degli ottoni e gli accordi delle masse corali.
Il temporale
D’un tratto, preceduto da folate di un vento sinistro, il finimondo. I lampi delle macchine fotografiche i quali, a sprazzi, stracciavano l’ordito della notte, diventano più fitti e frequenti. Radi goccioloni cadono sulle acconciature e sulle scollature delle signore o sulle calvizie specchianti di qualche spettatore. Anche il Padreterno si è messo a fare foto? si chiedono in molti… Si leva una corrente improvvisa, avvisaglia di un temporale estivo di insolita, forte intensità. Le prime gocce di pioggia si infittiscono fino a diventare un’autentica cortina d’acqua. Scappiamo tutti sotto la pioggia battente, spettatori, attori, comparse, cantanti, orchestrali, in un caotico fuggi-fuggi generale, in un bailamme di massa che sembra curato dalla regìa teatrale dell’opera. Ci rifugiamo negli ampi corridoi che circondano la struttura dell’Arena, in attesa che passi la sfuriata. Mezz’ora. Un’ora. Nulla da fare.
Le matrone tedesche
Alla fine una voce gracchiante e desolata annuncia dall’altoparlante che la recita viene sospesa per forza di cose. Dobbiamo lasciare sconsolati il teatro. Due matrone tedesche, pettorute e rubizze, che scalpitano davanti a noi tutte scarmigliate, con addosso quegli impermeabili di plastica trasparente lunghi fino alle caviglie, volgendosi intorno disorientate e deluse, borbottano a mezza voce: ”Ciao Italia… Ciao Verona… aufwiedersehn… Kvesto è paese di sole?” Le “erre” sono più raspose e arrabbiate che mai, a dare un senso, un significato al disappunto collettivo per una iattura che, a detta di molti, accade assai di rado, specie oggigiorno, in cui le moderne tecniche di previsioni meteorologiche, avvertono sui capricci del tempo. I Cirilli padre e figlio rientrarono a Macerata con il primo treno disponibile. Dal mio canto, fui fortunosamente prelevato tra la gente, sotto la pioggia battente, da uno zio (con il quale mi ero accordato) medico-condotto in provincia di Vicenza, e là rimasi per un paio di settimane; dopo la fallita recita della Carmen ero zuppo fradicio per la pioggia, ai piedi avevo un paio di mocassini bianchi traforati che guazzavano tra le pozzanghere.
Bruscantini e la sciatica-asiatica
Mi rifeci dello smacco…veronese in anni successivi quando, in compagnia di mio padre, anch’egli appassionato di lirica e violinista autodidatta, assistemmo al Teatro “Lauro Rossi” a una straordinaria Traviata, con il celebre soprano Maria Caniglia nel ruolo di Violetta e con il baritono Tito Gobbi in quello del severo Germont. E ancora, forse nel corso della stessa stagione (o qualche anno più avanti) assistemmo a un sanguigno “Rigoletto” interpretato dal concittadino Walter Monachesi.
Fu poi la volta di uno scintillante Elisir d’Amore con l’altro illustre conterraneo Sesto Bruscantini nelle vesti dell’istrionico dottor Dulcamara. Bruscantini, vecchia volpe del palcoscenico, nella celeberrima cavatina “Comprate il mio specifico…”, elencando la lunga lista dei malanni curabili con il miracoloso liquore, inserì al posto della “sciatica” – prevista dal libretto – il termine “asiatica”, influenza che in quel periodo imperversava per tutta Europa.
Rosanna Fornari, maceratese
E risento, con emozione, la voce di Ferruccio Tagliavini, un poco più flebile per l’avanzare dell’età, nel mentre si esibiva sul palco costruito a bella posta dinanzi al sagrato della chiesa di San Paolo. Lascio da ultimo, con una punta di rimpianto, la maceratese Rosanna Fornari che, sempre sul palcoscenico del “Lauro Rossi”, si propose per la prima volta nella sua città, in una oleografica edizione di Cavalleria e Pagliacci. Erano gli anni in cui, nei teatri italiani ed esteri, trionfava Anita Cerquetti, giunonica soprano dalla voce sublime, altra marchigiana verace, originaria di Montecosaro. La ascoltai prima allo Sferisterio, ancora non adattato a tempio della lirica estiva, in un memorabile concerto insieme con Beniamino Gigli.
Il tenore bassotto e il… davanzale
Successivamente al Teatro comunale nella Forza del Destino, con altri artisti non certo della sua levatura, sia fisica che vocale! Suo partner in quest’opera verdiana capitò che fosse un tenore, di cui mi sfugge il nome (Salvatore Lisitano? Achille Braschi?) non più giovanissimo, bassotto e con pancetta, costui cercava di svettare in alto, calzando un paio di scarpe ortopediche dai tacchi impossibili. Durante la serata, in un crescendo… rossiniano di piccoli contrattempi (una stecca del cantante, poco affiatamento tra coro e orchestra, lo scoppio di un riflettore in scena ecc.) si scatenò il caratteraccio scanzonato e sfottente dei maceratesi. Un certo “Petrì” conosciuto in città per la sua lingua arguta e tagliente, bersagliò il povero don Alvaro con frecciate feroci, lanciate nel pieno della rappresentazione. E poiché il tapino, con i tacchi e tutto, non arrivava neppure all’altezza dell’ampio seno della Cerquetti, alta e maestosa come una walchiria, Petrì, con un tempismo da musicista consumato, al culmine del duetto del terzo atto, mormorò con un registro di voce medio, che comunque si potesse sentire: “‘Ppògghiete su ‘llu stracciu de’ davanzale de Anita, sennò come ce ‘rrighi lassù, quanno devi da fà l’acutu?..”. E, più tardi, quando il don Alvaro compare in scena inguainato in una calzamaglia che metteva in evidenza in maniera impietosa e, a dir poco sconveniente, particolari anatomici antero-posteriori, Petrì non si trattenne e sbottò, con la stessa intonazione: “Ndò’ vai, co ‘ssa fiasca! Fatte vedè da Jacarelli…” (all’epoca Primario del Reparto Chirurgico dell’Ospedale di città).
L’incontro con la Cerquetti
Dopo la recita, fui introdotto nel camerino della cantante con la mediazione di una zia omonima della stessa (Anita Giorgi Cerquetti) e cercai di giustificare a mio modo la poca educazione del pubblico; la soprano rispose che, in certo modo, le tournèe in provincia servono, fra l’altro, ad abituarsi alle platee più disparate e scalmanate, a farsi le ossa insomma. Molto simpatica e cordiale, mi fece omaggio di una bella foto con dedica, che ancora conservo. All’uscita della rappresentazione, i melomani più accaniti erano riuniti in piazza, come di consueto, a un angolo della Torre civica, a spettegolare, a fare le bucce un po’ a tutti, a commentare l’esito dello spettacolo; quella volta ci trovammo tutti concordi sulla pochezza soprattutto del protagonista maschile contrapposto all’indiscutibile talento vocale della Cerquetti. Erano nel gruppo validi orchestrali come Dante Domizioli, Campanini, Bertazzoni, Scucchiò Gentili, Mancini, Caggiano, Briscoletta, che – parti in causa in quella occasione – non ebbero il coraggio di polemizzare e di opporsi alle critiche ritenute più che giuste.
Il suonatore di piatti
Negli anno ‘80 ebbero un notevole successo in città i concerti di musica da camera proposti dall’associazione “Gaspare Spontini” che operava in tutto il territorio nazionale; concerti che, a Macerata, avvenivano a Palazzo Buonaccorsi nel suggestivo spazio della sala dell’Eneide o a Palazzo Mozzi-Borgetti nella sala cosiddetta “degli specchi”. Arrivò dunque per una esibizione un celebre complesso strumentale, mi pare fosse il “Trio italiano d’archi” diretto dal solista di viola Bruno Giuranna.
Sedeva in prima fila un omone rubizzo con una camicia a scacchi multicolore il quale, in attesa dell’inizio del concerto, smaniava impaziente, asciugando il sudore che colava copioso dall’ampia fronte abbronzata. Entrano i musicisti che non possono far a meno di notare l’ingombrante presenza dell’ascoltatore a ridosso dei leggii; Giuranna in persona si rivolge all’omone con parole di accattivante cortesia e chiede: “Le piace la musica da camera?” Risponde l’interpellato: “E come no… sòno li piatti su la vanda de M***…vóli che non me piace la museca…!?” E Giuranna: “Allora stasera dovremo metterci tutto l’impegno!” Il tizio, non avendo compreso l’ironia del concertista, replica: “Vasta che ve sbrighète a cumenzà e che sònete comme Dio comanna…”. Testuale! Verranno poi le stagioni dello Sferisterio, ma questo è un altro discorso…
Goffredo Giachini
28 luglio 2018