L’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, dai Cistercensi ai Gesuiti

La storia dell’abbazia si basa sullo studio delle pergamene medievali, conservate presso vari archivi, compreso quello segreto del Vaticano, e sui documenti conservati  presso i Comuni con i quali l’abbazia ebbe rapporti. Altre fonti sono i volumi di storici locali. Malgrado la grande mole di documentazione esistente va considerato che, intorno all’anno 1000, gli storici del tempo ci tramandano una situazione di città spopolate, castelli distrutti, chiese incendiate, conventi rasi al suolo, campi deserti, colli e valli inselvatichiti, a causa delle incursioni dei barbari e delle epidemie, in un contesto politico di anarchia e lotte di confini, è lecito immaginare quanta documentazione sia andata distrutta, rendendo la ricostruzione complessa.

 

Fondazione ufficiale nel 1142

Comunque, in sintesi, l’Abbazia di Chiaravalle in Fiastra venne ufficialmente fondata nel marzo del 1142, quando Guarnerio, duca di Spoleto e marchese di Ancona, dispose la costruzione di una abbazia di frati di Chiaravalle in suo onore, presso il fiume Fiastra, lì dove c’erano i resti di un’antica chiesetta greca, e della quale si erano appropriati i conti Offoni di Villamagna, fino all’arrivo dei cistercensi. I dodici frati arrivarono nel mese di novembre del 1142 e, presumibilmente, si insediarono a Collalto (come suggerisce l’atto di Guarnerio) nel luogo dove già esisteva dal secolo VIII una piccola chiesa benedettina abitata da monaci farfensi, citata nei diplomi imperiali di Ottone I nel 967, Ottone III nel 998, Enrico IV nel 1084, Enrico V nel 1118.

 

Le bonifiche

Iniziarono subito le bonifiche e in breve tempo acquisirono terreni e beni in quantità tale, anche da lasciti e donazioni, da divenire una delle più grandi abbazie d’Italia, ancora prima di vedere ultimati gli edifici abbaziali, che vennero edificati con materiale di riuso prelevato dalla vicina Urbisaglia. La prosperità si protrasse per 500 anni, grazie all’organizzazione dei monaci che seppero farne un importante centro culturale, economico, politico oltre che religioso e caritatevole. La regola benedettina imponeva ai monaci l’impegno al lavoro manuale, al fine di rendere le abbazie autosufficienti, ai conversi (figure laiche) erano affidate le bonifiche, le coltivazioni, l’allevamento del bestiame, la cura delle grange, cioè delle grandi fattorie di proprietà dell’abbazia. Furono ovviamente agevolati da privilegi, immunità, esenzioni sia imperiali che papali, ma tutto questo si interruppe nel 1422.

 

Le distruzioni di Braccio da Montone

Il capitano di ventura Braccio da Montone nel 1422, per punire l’abate che voleva impedirgli di attraversare il suo territorio, saccheggiò l’abbazia e vi portò tale distruzione (rase al suolo il castello di Villa Magna) che la stessa rimase abbandonata per decenni, finché per interessamento di vari papi (Eugenio IV, Niccolò V, Callisto III) i monaci poterono recuperare le proprietà. I papi dimostrarono una singolare predilezione per l’abbadia di Fiastra sin dalla sua fondazione. Gli antichi possedimenti dei cistercensi furono dati in commenda, cioè in gestione amministrativa e godimento delle rendite, a cardinali.

 

Gestioni cardinalizie

Il primo dal 1457 al 1462 fu Rodrigo Borgia, nipote di papa Callisto III e lui stesso futuro papa con il nome di Alessandro VI; qui un piccolo mistero, perché da una pergamena del 1460 risulta che in quell’anno anche Stefano Nardini, futuro cardinale, fu “referendario e commendatario monasterii abatie sancte marie clarevallis”. Seguirono altri 7 commendatari, che durante le loro amministrazioni fecero eseguire lavori di ristrutturazione del tetto della chiesa (1473), deviare il corso del fiume Fiastra (1476), costruire alcune case coloniche nel 1500, un fatto di rilievo perché sino a quel momento i coloni erano vissuti in capanne di paglia (forse i noti “atterrati”). Questa ultima iniziativa fu disposta da Clemente VII. L’ultimo commendatore, Alessandro Sforza, si occupò fra le altre cose di chiudere definitivamente le vertenze con Montemilone sui confini territoriali, facendo mettere e murare con calce una grossa pietra nella sommità del monte fra Colbuccaro e l’abbadia di Fiastra, dalla quale tirando una linea retta tanto verso il fiume Fiastra quanto verso il Chienti ancora oggi si stabilisce il confine tra Corridonia e Tolentino.

 

Arriva la Compagnia di Gesù

Alla morte dello Sforza nel 1581, papa Gregorio VIII tolse il titolo di abbazia e affidò tutte le proprietà alla Compagnia di Gesù, che a eccezione di chiesa e chiostro, trovò gli edifici in rovina (evidentemente le persone incaricate dai commendatari non erano state all’altezza di gestire gli ampi possedimenti). Dopo aver dato sistemazione ai cistercensi presso una chiesa di Roma, dove furono trasferiti dopo essere stati per cinque secoli nell’abbazia, i gesuiti si misero all’opera per ristrutturare le case coloniche, e soprattutto riorganizzare l’attività agricola. La proprietà era di complessivi 1610 ettari, divisi in 14 “possessioni”, unità fondiarie coltivate da altrettante famiglie di coloni. In verità 1/3 della tenuta era praticamente incolto, tra prati e boschi che venivano utilizzati per l’allevamento degli ovini.

 

Le trasformazioni apportate dai Gesuiti

I poderi, a seconda dell’estensione, avevano anche bovini, mentre i suini erano allevati esclusivamente nella tenuta di Sarrocciano. I gesuiti trasformarono le vaste proprietà in un’azienda ben organizzata e redditizia, tanto da contribuire per 1/3 del totale alle entrate del Collegio Romano, la prestigiosa istituzione scolastica gesuita con sede in Roma, oggi sede del Ministero dei beni culturali. L’elevata produttività fa capire come mai le dispute per l’attribuzione del territorio tra i comuni di Tolentino e Urbisaglia siano durate secoli, fino al 1713 quando si formalizzarono i confini tuttora validi: una linea diritta assegna la chiesa e il chiostro a Tolentino, il palazzo Giustiniani Bandini e il suo giardino al comune di Urbisaglia.

Simonetta Borgiani

8 aprile 2018

 

 

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