Leggendo questo quarto romanzo di David Miliozzi mi è sorta una domanda, o se si vuole una perplessità: c’è differenza tra scrivere con la penna o con il computer?
Penna o tastiera?
Un tempo al posto del computer era in voga la Lettera 22, ma la domanda si poneva anche allora. Personalmente non ho mai creduto che ci fosse una differenza fondamentale; sono “strumenti” di scrittura e ognuno li adatta a se stesso. Eppure il ritmo e la velocità non sono i medesimi; forse ne risentono anche lo stile e il linguaggio: la tastiera di un computer è più veloce della penna e della Lettera 22. Può sembrare questa una considerazione marginale e risibile, ma nel determinare la scrittura letteraria ogni cosa ha il suo peso.
Ritmo e velocità
Lo stile di David Miliozzi, sperimentato sin dal primo romanzo, Senza parabrezza, e consolidato nelle altre due riuscitissime prove, è uno stile in cui si evidenziano appunto ritmo e velocità. Uniformare alla scrittura la rapidità e la volatilità del pensiero; sincronizzare il pensiero con la realtà delle cose che accadono e che stanno sotto agli occhi, realizzare così una sorta di “nuovo realismo”: questa la formula. I francesi furono i primi a darle un nome, ma esistevano già precedenti illustri, un filone che ha attraversato l’Europa da nord a sud con protagonisti del calibro di Joyce, col suo Ulisse che resta riferimento apicale. E ci si è messo anche il cinema “iperrealista” o “fenomenologico”, con i continui cambiamenti di scena e di tempi, e il cosiddetto montaggio incrociato a play back, a dare una mano.
Romanzo o diario?
Un modo di intendere la narrativa, che alcuni hanno usato in senso antipsicologico e che altri invece hanno estremamente psicologizzato. Miliozzi usa entrambe le opzioni, calandosi entro un autobiografismo che fa sorgere il dubbio se ciò che ne risulta sia “romanzo”, come dichiarato in copertina, o “diario” in senso proprio.
Intreccio dei temi
La vicenda narrata si compone di alcuni temi di fondo che si intersecano: l’esperienza professionale in ambito scolastico; l’insegnamento di sostegno a soggetti svantaggiati; la specializzazione su tematiche artistiche e psicologiche; i rapporti coniugali, familiari e di vicinato; lo shock terribile e meraviglioso del procreare, del sentirsi genitore; le gioie, le ansie, i trasalimenti che tutto questo procura. E in aggiunta il terremoto che appare e ricompare, dando l’impressione di un destino immane che non ha mai fine!
Macerata è la scena
Sono questi gli ingredienti che, sapientemente dosati, e forse anche personalmente vissuti, fanno del romanzo qualcosa di avvincente e assolutamente attuale, condivisibile, coinvolgente. Il ritmo è serrato e non lascia scampo: devi continuare a leggere! L’ambientazione stessa è quella a noi familiare: vie, piazze, tipo di traffico, luci, suoni, colori, vociare e gergo, sono proprio i nostri. Macerata è la scena, o come oggi si usa dire, la location.
L’universale
Ma le argomentazioni, gli stati di animo, sorprese e gioie, ansie e paure sono quelli di tutti e di sempre. Dietro a ogni situazione tratteggiato e ricorrente c’è, quasi occultato con pudore, l’universale. E non manca l’ironia. È facile trarre da tutto ciò anche una morale, che è quella che la vita man mano e inopinatamente ci insegna e impone: l’amore.
Lucio Del Gobbo
6 marzo 2018