Agli inizi degli anni cinquanta ci toccò di vendere la casa in paese e ne ricavammo un milione e 600mila lire. Una cifra. La famiglia (io, mia madre e mio padre) si trasferì in città, trasportando parte degli arredi e del mobilio antico sul cassone di un traballante camion, residuato della guerra 15/18. Quel che non si poté utilizzare fu momentaneamente depositato in un garage preso in affitto, in attesa di tempi migliori.
Inizia l’avventura con un mezzo antidiluviano
Dovemmo fermarci più volte lungo i tornanti dell’accidentato stradone, allora in terra battuta, che da Montelupone conduce a Macerata, costretti a puntellare con sassi o “fiecche” di legno, le ruote di gomma piena dell’antidiluviano mezzo (forse un 18 B/L), che arrancava e sbuffava come un polmone asmatico. Due ore e mezzo per coprire i sedici chilometri del percorso.
In via Crispi pure con le cimici
Nei primi tempi ci adattammo a vivere (si fa per dire…) in via Crispi, in una costruzione alta e stretta di quattro piani, tutta scale, con due stanzette maleodoranti per pianerottolo, gestita e disciplinata con arcigna malevolenza da certa sòra Antonia, una megera sulla ottantina. Sperimentammo l’imbarazzo e le scomodità della cucina in comune, mangiando a turno con la vecchia, in una saletta sul retro della casa, da cui si godeva lo splendido panorama di un… muro. Undici mesi di inferno. In uno strano appiccicoso pomeriggio di mezza estate, buttammo all’aria lenzuola e materassi e mia madre, con un atteggiamento di schifato ribrezzo, bruciò, una a una, con la fiammella di una candela, le cimici che si erano radunate in colonia tra le maglie delle reti metalliche dei letti.
L’Oratorio a San Giovanni
Fu così per un tempo che pareva non finisse mai, fino al momento in cui, ricorrendo a un prestito bancario e con l’aiuto incondizionato di uno zio facoltoso, riuscimmo ad acquistare un appartamentino in uno stabile costruito a tempo di record in viale Piave dalla ditta Lattanzi (le famose “case de Lattà’”). Continuai a frequentare per lunga pezza, anche dopo il trasferimento di residenza, l’oratorio della parrocchia di San Giovanni, costituito da locali dalla struttura inusitata, posti al di sotto del piano stradale di via Crescimbeni. C’era – fra l’altro – un teatrino che ritengo unico. Il palcoscenico aveva due sipari, affacciandosi ad angolo retto su due platee di una trentina di posti ciascuna.
Gli amici
Là cercai di soddisfare le prime curiosità artistiche, cimentandomi in canzonette e imitazioni, insieme con gente che sarebbe poi emersa in attività le più diverse, come i fratelli Sbriccoli, Americo ed Enrico, quest’ultimo noto più tardi con lo pseudonimo di Jimmy Fontana, Giancarlo Liuti, Sandro Marsiglia, Urbano Riganelli e tanti altri, amici per la pelle e compagni di giochi e di caciare inenarrabili. Alcuni sono spariti nel turbinio scomposto del tempo, come Elverio Maurizi, critico d’arte, colpito da infarto a 51 anni o l’avvocato Arturo Ciotti, deceduto insieme con la moglie a seguito di una fatale caduta da cavallo e forse travolto dagli zoccoli degli animali imbizzarriti; un avvenimento che a Macerata fece molta impressione. E più di recente lo stesso Jimmy Fontana.
Gl’insegnati del Classico
Frequentai le Medie, inizialmente al Convitto Nazionale, quindi al Palazzo degli Studi – come lo si definiva un tempo – e da ultimo il Liceo Classico in fondo a corso Cavour (Noi del Classico Liceo, siam vedette della Patria – recitava un inno composto ad hoc…) sotto la ferrea disciplina del professor Trepin, il “Preside” per antonomasia. Gli insegnanti di indiscusso valore, come Scattolini, Porfiri, Branciari (battezzato dagli studenti “Marnanto” da una voce della coniugazione del verbo greco), la Carnevali (soprannominata “Chimichètte” per le in dubbie origini meridionali e la statura minuta); persone rimaste nella memoria e nel cuore per i tratti che hanno saputo imprimere al nostro carattere e per le spinte di formazione intellettuale e critica, che sono servite a condizionare modi e scelte di vita. Un grazie sincero e spontaneo anche a distanza di più di mezzo secolo.
L’aneddoto del prof Parrino
Tra i tanti ricordi che a distanza di anni ci si scambiava tra gli ex alunni, mi limiterò a citare un episodio che ebbe come protagonisti il professor Parrino, per un certo periodo supplente di Storia dell’Arte e uno studente che indicherò con le sole iniziali del nome, G.M., a motivo della carica di prestigio ricoperta presso un Ente giuridico a Roma. Parrino dunque, con la sua forbita ed elegante loquela, spiegava i moduli costruttivi usati dai Romani nell’edilizia e diceva che i cittadini della capitale, non avendo a disposizione eccessivi spazi da adibire ad aree fabbricabili, avevano eretto agli Dei protettori dell’Urbe tempietti di dimensioni ridotte; più piccoli, ma non dissimili, per l’impianto architettonico, da quelli solenni che tuttora sovrastano – a esempio – Paestum o la piana di Agrigento. La settimana dopo, il professore chiede un volontario, disposto a sintetizzare quanto era stato spiegato nella precedente lezione. Scatta in alto il braccio di G.M. notoriamente secchione e sempre preparato a ogni tipo di interrogazione. Con l’accento strascicato del sud (era infatti di origini pugliesi) e bilanciandosi, come sua abitudine, sulla punta del piede sinistro, G.M. chiarisce che i Romani si erano trovati costretti a erigere costruzioni di modesta entità, perché erano poco “espansivi”. Testuale! Il professore, ottenuto il silenzio dopo l’inevitabile risata dell’intera scolaresca, redarguisce il G.M. affermando: “In definitiva apprezzo la buona volontà, ma lei mi sembra un pò loffio!” Poi rincara la dose, ricordando che un suo amico, al ristorante, era solito giustificare le consistenti mance al cameriere così: “Sa… in queste circostanze, sono molto lascivo…”.
L’aneddoto del prof Scattolini
E come dimenticare il professor Scattolini che, leggendo a noi pivelli, nei primi giorni di Liceo, l’incipit dell’Inferno di Dante, era solito celiare: “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai con una serva all’oscuro…”. Questo professore di lettere, soltanto dopo la sua morte, si è rivelato (almeno per noi ex allievi) persona di estrema delicatezza e pudore, avendo descritto in un volumetto pubblicato postumo, lo strazio e le sofferenze patite durante il periodo di prigionia in Germania. A quel che ricordo mai ebbe a farne cenno in classe. Era rimasto per anni nello spazio della memoria un ritratto di lui ben diverso, una immagine più sfumata, quasi fatua, ridanciana. Nei momenti dell’ilarità contagiosa, Scattolini amava apostrofarci con epiteti come: minervone biondo, piccolo bisonte delle paludi, bertuccia delle Indie. O era nostro complice nell’accentuare amenità di puro stampo letterario, come quando si ripassavano alla lettura i versi danteschi riferiti a “Taide la puttana” o si accennava a quel tale che “…del cul fece trombetta”! Ammiccamenti, sorrisetti innocui che sbracavano in matte risate, con lo spiritoso sdrammatizzante intervento dell’insegnante. Leggere il racconto dei suoi patimenti è stato come strappare la sottile maschera che egli stesso, con sensibilità e una innata signorilità, si era costruito addosso. È stato come distruggere una foto sbagliata, cercando di ricrearne un’altra del tutto diversa.
Il rito della campanella
Come tralasciare il rito della campanella alla fine delle lezioni quando si usciva tutti in bell’ordine, prima le studentesse, poi i maschietti, secondo l’alternanza stabilita dall’autoritario fischietto del bidello Verdenelli che, dall’alto della scala di accesso, disciplinava il traffico. Guai a trasgredire la regola imposta dal Preside Trepin, il quale era solito esclamare: “ Questa non è una piazza è una scuola…”. (continua)
4 febbraio 2018