Appena ho ascoltato questa minuscola storia d’emigrazione italiana ho capito che valeva la pena di raccontarla. Verso la fine dell’Ottocento, quando il nonno di Brigitte aveva tre anni, la sua famiglia, dalla vicina Sicilia, era emigrata per lavoro in Tunisia. Il nonno era alto, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, somigliava a un irlandese. Iniziarono a lavorare in campagna, dove si produceva olio, frutta e vino, dopo poco riuscirono ad acquistare una fattoria in pianura, non troppo distante dalla capitale. Il giovane incontrò la nonna, forse anche lei proveniente dalla stessa isola. La donna aiutava il marito nell’amministrazione della fattoria, già ben avviata. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’uomo, anche se sposato, fu inviato a combattere al fronte. Quando nacque la mamma, la situazione economica era abbastanza buona. All’epoca la Tunisia era una colonia francese e quella fu la sua madrelingua. La bambina trascorse l’infanzia a Tunisi nel quartiere dell’Avenue de Carthage (un viale che porta fuori città) in un appartamento con una grandissima terrazza. Ricorda il treno che da avenue Bourghiba conduceva fino alle spiagge del nord e al porto de La Goulette. Studiava arabo, francese, canto e altre materie, la maestra si rese conto che aveva una bella voce. Con i genitori, ogni tanto si recava a far visita ai nonni nella fattoria a bordo di una Citroen. Prima di arrivare alla fattoria ammirava il grande lago di acqua dolce Sijoumi frequentato da bellissimi fenicotteri rosa; un viale alberato conduceva alla casa colonica. L’interlocutrice, Brigitte, ricorda che il nonno era geloso del magazzino delle derrate alimentari. Dov’erano conservati grandi contenitori di olio di oliva, la bambina ogni tanto ne assaggiava un bicchierino, diventando una precoce degustatrice d’olio! I maschietti della famiglia, il fratello e suo cugino, tagliavano il frutto del melograno per farne dei dischetti per giocare alla guerra. Dal tetto della casa i bischeri osservavano il nonno infuriato che li attendeva con la frusta. Nei campi attorno alla casa colonica si estendevano piantagioni di olive, pesche e uva. Per proteggere le pesche dagli insetti, il nonno inseriva i frutti in maturazione in sacchetti di carta, chiudendoli con un sottile spago. Nella cantina si lavorava l’uva, maturata e molto dolce grazie alla terra soleggiata, ottenendo un vino dalla gradazione alta, dai 14 ai 16 gradi. Sicuramente lo acquistavano i commercianti all’ingrosso per tagliare i vini di bassa gradazione, come succedeva nell’Italia meridionale. Di fronte alla casa vi era un grande albero di mandorlo, dove la piccola, verso marzo – aprile, si arrampicava per sgranocchiare le mandorle verdi, da noi chiamati mandorlini. Ne sono ghiotto anche io, ma nelle Marche, quando fioriscono i mandorli, vi sono spesso delle gelate che ne impediscono l’allegagione. Esterno, ma adiacente alla casa, c’era un forno a legna. Il pane s’impastava e cuoceva una volta la settimana. Molto saporite le grosse pagnotte, le fette si potevano gustare semplicemente condite con olio e sale. Non mancava una piccola scuderia per il cavallo che trainava un calesse, preferito per spostarsi in altre fattorie. L’animale, dal mantello grigio con puntini neri, era di carattere tranquillo. Gli esperti chiamerebbero appaloosa il suo mantello macchiato. Il suo predecessore equino allenato a fare il carosello, quando udiva la musica, s’impennava con le zampe davanti, anche quando trainava il calesse. Durante le stagioni della raccolta della frutta, dell’uva e dell’oliva passavano delle carovane di beduini che offrivano il loro lavoro per la raccolta con tutto il gruppo. Il nonno con la medicina naturale riusciva a guarire piccole irritazioni oftalmiche ai beduini che per questo gli erano molto grati.
Eno Santecchia
11 gennaio 2018