Moti carbonari maceratesi del 1817: il nome del traditore

Una lapide scolorita, come il ricordo dei maceratesi, in onore dei carbonari che 200 anni fa organizzarono a Macerata il primo moto italiano del Risorgimento. Nell’edificio Cioci, in via Garibaldi, dov’era l’antica Locanda della Pace, si trova una semi scolorita lapide, a cui tanti maceratesi forse non fanno più caso, con un’iscrizione che inizia così:

 

Nel 1817

Pochi animosi di Macerata e delle terre vicine

affratellati nella società dei Carbonari qui si accordarono

per insorgere contro la tirannide sacerdotale e straniera

ma scoperti e oppressi giacquero nelle galere pontificie.

 

Oggi quei carbonari maceratesi quasi nessuno li ricorda, eppure misero in gioco la propria vita per lottare per la libertà e l’unità d’Italia. Con questo breve articolo si vuole dare un modesto contributo, affinché siano in qualche modo ricordati – anche se la loro azione fu fallimentare per le ragioni che racconteremo – a parziale riparazione dell’immeritato oblio.

 

La notte di San Giovanni

Nella notte di San Giovanni, tra il 24 e il 25 giugno 1817, Macerata fu teatro del primo tentativo di sommossa risorgimentale che si ricordi. Una data, dunque, di non poca importanza per la storia del Risorgimento italiano. Una data che dovrebbe accomunare tutti in un ricordo commosso e pieno di orgoglio, per aver visto nascere tra le nostre mura questo moto insurrezionale, schiettamente italiano, a opera di un manipolo di patrioti. Ma veniamo ai fatti. Nella popolazione marchigiana stava fermentando qualcosa di nuovo: l’idea liberale, che lo spirito di opposizione al governo francese aveva formato, veicolata fortemente dalla massoneria, sotto il regno del Murat. Dall’idea liberale nacquero i primi nuclei segreti della carboneria, prima nell’Italia Meridionale, poi, per contaminazione, anche nelle Marche e in Romagna. Con la Restaurazione questi nuclei carbonari si moltiplicarono, sia per la forte aspirazione alla libertà dagli antichi assoluti regimi, sia per la crisi economica che fu tra le cause di una fame dilagante e di una tremenda epidemia di tifo petecchiale.

 

Le classi insorgenti, i morti per fame

In questo insorgente spirito antigovernativo, per la prima e l’ultima volta, fu coinvolta anche la classe contadina, che si univa a ex militari, impiegati e funzionari napoleonici, in quel periodo socialmente emarginati. Il malessere economico, tra il 1816 e il 1817, e le condizioni di salute di Pio VII furono il pretesto, ovvero una sorta di incentivo che indusse i carbonari all’azione rivoluzionaria. Il governo pontificio era seriamente sotto pressione per la grave crisi economica e alimentare, che, tra l’altro, avrebbe potuto cagionare inquietanti rivolte popolari, com’era già avvenuto negli anni precedenti, tanto che nel febbraio del 1816 il Delegato Apostolico di Macerata, con una circolare riservata agli amministratori comunali, raccomandava urgenti provvedimenti occupazionali, al fine di alleviare le gravi difficoltà. Il 30 novembre dello stesso anno anche il Segretario dello Stato Pontificio, cardinale Ercole Consalvi, per provvedere in qualche modo ai bisogni dei più poveri, attanagliati dalla fame con non pochi morti per mancanza di cibo, suggeriva di impegnarli in lavori pubblici e di organizzare un servizio di zuppe economiche.

 

Insurrezione con 400 uomini: il piano

In questo contesto fu organizzata l’insurrezione che prevedeva l’assembramento di ben 400 uomini, provenienti da diversi paesi del Maceratese, che avrebbero dovuto prima raccogliersi in diversi luoghi all’esterno delle mura, a Santa Croce, alle Vergini e presso la Chiesa di Santo Stefano, e poi convergere tutti in quest’ultimo luogo. Da qui i rivoltosi, armati, sarebbero dovuti procedere verso Porta Romana dove le guardie pontificie, che conniventi con i carbonari la presidiavano, a un segnale convenuto, avrebbero dovuto aprire le porte. Così gl’insorti, entrati in città, si sarebbero dovuti dirigere verso la piazza centrale, dove, nell’ex Convento dei Barnabiti (oggi università), era concentrato un altro gruppo di carbonari con a capo Luigi Carletti, che avrebbe dovuto guidare l’assalto ai palazzi del Delegato apostolico, del vescovo Strambi, dell’amministrazione comunale, come pure alle carceri e alla guarnigione pontificia. Prese le sedi istituzionali, si sarebbe dovuto procedere all’arresto del Delegato apostolico, del Vescovo, degli amministratori più compromessi e di alcuni funzionari considerati corrotti. Una volta posta sotto controllo dei rivoltosi la città, si dovevano accendere dei razzi luminosi sulla torre comunale, che avrebbero dato il convenuto segnale del successo dell’insurrezione, segnale che poi, da monte a monte, doveva trasmettere l’avvio a catena delle altre insurrezioni nei territori delle Marche, della Romagna e dell’Umbria. Poi liberati i prigionieri dalle carceri, avute le risorse finanziarie della cassa comunale e di quella delegatizia, si sarebbe instaurato un governo provvisorio repubblicano. Questo, in sintesi, il piano preparato.

 

Atteggiamento violento causa una spacccatura

I carbonari maceratesi erano molto decisi. Nel loro piano prevedevano anche l’uccisione di alcuni nobili e funzionari compromessi (si disse anche del delegato apostolico e del Vescovo), nonché il saccheggio delle loro case, ma questo atteggiamento violento non era condiviso e spaventava i responsabili carbonari della Vendita Madre di Ancona e di quella bolognese. Su questa decisione prevista dal piano maceratese i vari gruppi carbonari si spaccarono, compreso quello della città, dove il conte Cesare Gallo – Gran Maestro della Vendita carbonica di Macerata – tentò di dissuadere l’ala più estremista a desistere dall’operazione, invitandola a essere più moderata. Il gruppo maceratese dei carbonari, guidato da Luigi Carletti, rimase quasi isolato e, noncurante dei contrordini che giungevano dalle numerose Vendite, decise di passare comunque all’azione, fidando sul fatto che molti dei carabinieri e dei militari pontifici parteggiassero per loro e che tuttavia anche i riottosi alla fine avrebbero partecipato alla insurrezione.

 

Il fallimento e il sospetto del tradimento

Così nella notte di San Giovanni, nel punto di raccolta ai Cappuccini Vecchi, si ritrovarono, invece dei quattrocento attesi, solo alcune decine di rivoluzionari. Mentre si attendeva e si sperava nell’arrivo di altri carbonari, all’improvviso da Porta San Giorgio partì una carica di cavalleria pontificia, che costrinse alla fuga gli scarsi convenuti. All’interno della città un oste carbonaro, vista la piega degli avvenimenti, si dette alla fuga verso le mura di tramontana. Fu avvistato da una guardia che gli intimò il chi vive, l’oste gli tirò un’archibugiata, ricevendone in risposta  un’altra dal militare e, non colpito, riuscì a scavalcare le mura, dandosi alla fuga in aperta campagna. I soldati che presiedevano Porta Romana nell’udire questi colpi, pensando che fosse partito l’assalto alla città, aprirono le porte, ma non trovando nessuno all’esterno le chiusero rapidamente sperando di non essere scoperti. Quanti erano nel Convento dei Barnabiti capirono come stavano andando le cose e si dettero anch’essi alla fuga. Così i carbonari del gruppo che aveva osato sfidare l’assolutismo ripristinato dalla Santa Alleanza, fallito il piano, si nascosero sperando di non essere individuati. Cominciarono quindi a domandarsi il perché non fossero riusciti nemmeno a iniziare la rivolta. Si materializzò così in loro il concreto sospetto del tradimento.

 

Il Delegato apostolico sapeva

In effetti, il 21 giugno il Delegato apostolico aveva invitato a un incontro urgente i nobili, i mercanti e i capi famiglia, informandoli “che si era scoperta una congiura, la quale doveva in una notte succedere una rivoluzione con dar fuoco e assassinare alcune case”. E allo stesso tempo li invitava a vigilare e a difendere le proprie famiglie, mentre per la difesa della città aveva pensato lui stesso, facendo arrivare centoventi militari. Anche a Roma si sapeva del tentativo insurrezionale maceratese: lo stesso giorno, infatti, si chiedeva e si otteneva la istituzione di un Tribunale speciale, che prima non esisteva, appositamente  deputato  alla  repressione  dei delitti politici. Gli abitanti di Macerata non si accorsero quasi di nulla, mentre gli amministratori comunali inviarono al cardinale Consalvi una lettera di scuse per la vicenda, chiedendogli di rassicurare il Pontefice sulla fedeltà dei cittadini maceratesi.

 

Arresti e sentenze

Poi fu avviata la ricerca dei capi della cospirazione. Furono individuati oltre seicentotrenta sospettati di aver partecipato alle attività sovversive, i più compromessi furono arrestati e tradotti nelle carceri di Castel Sant’Angelo a Roma. Dopo investigazioni, perquisizioni, interrogatori e raccolta di documenti segreti compromettenti e cifrari, nonché deposizioni e confessioni, si arrivò alle sentenze. Furono giudicati trentasei carbonari, dei quali tredici condannati a morte (condanne poi mutate in ergastoli); due degli inquisiti morirono in carcere durante il processo. Poi, sommando tutte le altre pene, gli anni complessivi di reclusione ammontarono a centosettantasette. Tra i trentasei condannati per Fellonia dal Tribunale Criminale pontificio, vi furono tredici maceratesi: Cesare Gallo, Luigi Carletti, Francesco Riva, Pietro Castellano, Nicola Pennelli, Vincenzo Pieri, Gabriele Filippucci e Carlo Scarponi, tutti condannati all’ergastolo. Furono inoltre condannati: Giuseppe Tamburrini e Antonio Cotoloni, a dieci anni di prigione ciascuno; Francesco Molinelli, Luigi Fioretti e Sante Palmieri a sette anni di reclusione, mentre Giovanni Romoli morì durante il processo. Gli altri carbonari condannati provenivano da diverse città della regione: Ancona, Corridonia, Fabriano, Filottrano, Loreto, Montecosaro, Montelupone, Potenza Picena e Ascoli Piceno. Tra questi vi erano anche don Francesco Cani di Corridonia e l’ex frate Vincenzo Cingolani di Potenza Picena. Ci furono anche non pochi collaborazionisti inquisiti che non ebbero condanne, ma non si riuscì a sapere di più su coloro che avessero tradito.

 

Il traditore

Qualche anno fa, in un archivio privato, ho trovato una lettera di uno dei cospiratori che “con Zelo favorì lo Stato in rilevare gli Autori, e le trame, che dovevano succedere fatalmente in Macerata nel mese di giugno 1817”. Questi reclamava un riconoscimento economico per avere “Egli solo” passato il piano Rivoluzionario al Delegato Apostolico. Ecco il suo nome: si trattava di Cesare Giacomini di Ascoli Piceno, all’epoca del moto residente a Macerata. Al di là dei risultati, questo moto, definito “più folle che temerario”, segnò l’inizio di un movimento crescente che attraverso congiure, insurrezioni, disfatte e vittorie, condanne a morte o a lunghe reclusioni, condusse l’Italia al suo Risorgimento che ancora non ha chiuso le sue ferite e attende una unità nazionale davvero matura e pacificata.

Romano Ruffini

2 dicembre 2017

 

 

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