“Signore e signori ecco a voi: il ciaùscolo!” L’ho voluto presentare come un divo perché per tantissimi anni è stato uno dei re della nostra tavola insieme con la polenta e con il pane. Per conoscerlo meglio partiamo dal nome. In latino “ciabusculus” significava “piccolo pasto” e alcuni vorrebbero far risalire a ciò il nome ma al tempo dei romani l’insaccato, solo del maceratese, non era ancora stato inventato e allora è quasi sicuro che l’origine del nome sia dal fatto che i nostri avi chiamavano “ciaùsculu” la budella più grossa dell’apparato digerente del maiale. In questo contenitore, opportunamente e accuratamente lavato, era fatto un ciuscolone che durava, se ben conservato, sino alla mietitura. “Lu ciasculu de lu vudellu jintì!” (il ciaùscolo insaccato nel budello gentile: il più grande). La pasta era composta dal 30 % di pancetta, 30 % spalla e 40 % lonza, il tutto insaporito con sale, pepe e qualche goccia di vino e poi finemente tritato. Le nostre vergare, in tempi più recenti, quando la pista non era più fatta sminuzzando la carne col coltello, ma con la macchinetta, chiedevano al pistarolo (macellaio esperto che faceva manualmente gli insaccati ) di passarla tre volte, perché ciò rendeva la pasta più facilmente spalmabile e quindi consentiva, con una sola fettina, di coprire una intera fetta di pane. La cosa più importante per far mantenere il ciaùscolo era la insaccatura. L’uomo, all’uscita della carne dall’imbuto, doveva essere tanto abile, con la mano, di evitare che nella carne restasse aria, che l’avrebbe fatta marcire in poco tempo. A tale scopo si faceva anche la picchettatura con uno speciale oggetto pieno di spilli che potevano fare micro-buchi nella pelle senza strapparla o danneggiarne l’in.tegrità. Poi i ciaùsculi, legati a coppia, erano appesi su una stanga, retta da due scale legate a libretto, vicino al camino, per due giorni, affinché potessero sudare per poi venire appesi sullo “stangà” (serie di pali ai quali si appendeva la pista) in un luogo fresco e asciutto, uno più alto e uno più basso in maniera che gli insaccati non si toccassero, perché altrimenti nel punto di contatto la carne si sarebbe rovinata. Venivano lasciati li, fermi, sino al momento di mangiarli. Il detto era: “A jennà poca paja a lu pajà, poca pula a lu pulà, tanta ciccia a lu stangà” (A gennaio poca paglia sul pagliaio, poca pula nel contenitore della pula, perché le scorte erano state diminuite dall’uso, e tanta carne appesa ai pali perché in quel mese di solito si faceva pista ). I ciaùscoli, quindi, restavano appesi alle stanghe per un certo tempo da ciò l’espressione che si usava quando se uno invece di agire restava fermo, indeciso, imbambolato dicendogli: “Si pòrbio un ciaùsculu!” (sembri proprio un ciaùscolo!). L’insaccato era usato subito dopo finite le salsicce, che erano le prime a essere mangiate, spalmandolo sul pane come un piccolo pasto da consumarsi anche durante il lavoro. Una curiosità: i nostri nonni amavano anche spalmare il ciaùscolo su fette, un po’ più spesse, di ciambellone (lu ciammellòttu), che c’era sempre nelle nostre case coloniche perché le nonne lo facevano per i nipoti e per la colazione . Con l’abbinamento dei due sapori si veniva a creare un eccellente gusto agro-dolce. Oggi il ciaùscolo è stato rivalutato come una specialità che è solo e unicamente del territorio maceratese. In suo onore si tiene anche una sagra che annualmente aveva sede a Castelsantangelo sul Nera e che quest’anno, sfollati dal terremoto, i cultori del ciaùscolo hanno trasferito, per i primi di giugno, a Campocavallo di Osimo. Ciaùsculo: splendido insaccato, sano, genuino, ottimo da gustare come componente dell’antipasto o spalmato sul pane per gustarne tutto lo squisito sapore.
8 luglio 2017