Nella chiesa di Santa Maria delle Moje sono a disposizione dei turisti, senza che vi sia alcuno che li venda e quindi facilmente consultabili, due libriccini scritti da Hildegard Sahler: uno del 1995, edito dal Comune di Majolati Spontini, “L’Abbazia Benedettina di Santa Maria delle Moje” e l’altro in seconda edizione “Arte Sacra nell’Abbazia di Moje, un viaggio tra culto e cultura”, edito nel 2010 dallo stesso Comune e dall’Istituto comprensivo Carlo Urbani. Questi sono un brogliaccio di un costoso libro della stessa Autrice, pubblicato in tedesco nel 1998 e in italiano nel 2006 per l’edizione Cappelli di Ascoli. In gran parte del suo lavoro Sahler sembra non essere sicura di quello che scrive, infatti usa “probabilmente” per 26 volte, 6 volte “presumibilmente”, 15 “forse”e poi ricorrono espressioni come “da supporre”, “quasi sicuramente”, “con grande probabilità”, “sembra”, “rende probabile”. Il dubbio è il carburante della scienza ma l’Autrice, purtroppo, negli elementi essenziali esprime certezze che non dimostra oppure dà per assodati aspetti precedentemente messi in dubbio. I suoi libriccini si prestano a una doppia lettura: una approfondita e una superficiale per chi dà uno sguardo, legge il titolo e alcune fotografie con relative didascalie, da cui apprende notizie date per certe ma in realtà in contraddizione con il testo. Già nel titolo Sahler parla di Abbazia Benedettina mentre a pag. 32 dice: “L’abate del convento delle Moje oppure il signore di questo monastero privato…”. Dalla didascalia dell’edizione del 2010 apprendiamo (p. 11) che le strutture più antiche risalgono al XII sec. mentre a pag. 9 scrive: “venne probabilmente fondata all’inizio del sec. XI da componenti o parenti della potente famiglia degli Attoni-Alberici-Gozoni come monastero privato…”. L’Autrice volutamente ignora la ben nota Germigny-des-Près e quindi la sua “pianta” carolingia, ma parla abbondantemente di altre chiese. A pag. 31 paragona Santa Maria delle Moje con la cattedrale di Bobbio e San Giacomo a Como “…perché anche in esse la campata d’ingresso che si trova tra le due torri viene combinata con un matroneo…. la stessa concezione di Moje si trova anche in San Vittore delle Chiuse e in Santa Croce dei Conti a Sassoferrato… restano gli unici esempi di utilizzo di una campata d’ingresso nel contesto descritto, anche se ci sono precedenti già in epoca carolingia…”, dimostrando in questo modo di conoscere la chiesa francese accettata come carolingia dagli esperti ufficiali. In effetti a pag. 163 del suo libro su San Claudio racconta, a proposito della chiesa di Germigny, che questa ha sei absidi, un metodo evidente per depistare. Anche uno studioso, se distratto, cade nella trappola perché viene allontanato dal paragonarla con le quattro chiese marchigiane di San Claudio, San Vittore alle Chiuse, Santa Maria delle Moje e Santa Croce dei Conti che hanno tutte 5 absidi. Pochi vanno a vedere la pianta n° 150, fatta in base ai reperti di scavo di questa chiesa e in cui, guardando con attenzione la legenda, si scopre che la famosa sesta abside è moderna: è stata fatta tra il 1867 e il 1876, cioè durante la guerra Franco-Prussiana. Sahler fissa le date di costruzione di San Claudio al Chienti intorno al 1030, San Vittore alle Chiuse 1070/80 circa, S. Croce dei Conti a Sassoferrato 1090/1100 circa (pag. 27) mentre Santa Maria delle Moje a pag. 25 viene datata “probabilmente” tra il 1100 e il 1110, quando a pag. 11 l’aveva posta “probabilmente”all’inizio dell’XI sec., senza dare alcuna spiegazione su dove abbia “estratto” questi numeri. Per comprendere il metodo depistante con il quale opera bisogna andare a un suo intervento del 2003 su “I Primi Due Secoli dell’abbazia di San Vittore Delle Chiuse”, dove a pag. 16 afferma che la chiesa di Genga è stata fatta prima intorno all’anno 1000 e poi sarebbe stata ricostruita nel 1070/80, senza però portare alcun documento a conferma di questa ricostruzione. Esiste però una pergamena dell’897 in cui si cita la chiesa di San Vittore e insieme si parla di Papa Romano, eletto in quell’anno e di cui non si hanno notizie. Il Colucci, davanti a una presunta contraddizione tra la data sulla pergamena e il Papa in carica in quell’anno, decide a questo punto di considerare errata la datazione della pergamena. La Sahler, a sua volta, afferma che Colucci giustamente ne corregge la data dato che in tutte le sue pubblicazioni si sforza di spostare la costruzione di tutte le quattro chiese a dopo il Mille, arrivando al punto di dire che San Vittore è stata ricostruita dopo il 1085 nonostante l’affermazione del Sassi, secondo il quale non c’è alcun documento che parli di una ricostruzione. Per di più, in questo caso senza dubbi, definisce il modello delle quattro chiese come autoctono e lo fa derivare da edifici triconchi paleocristiani e da quelli altomedievali a pianta quadrata con croce greca iscritta, modelli che si sono fusi per la prima volta a San Claudio. Anche in questo caso non porta alcuna prova. Per confermare questa tesi preconcetta, insiste molto sulle maestranze che sono (a Suo dire) di origine marchigiana; ma, pur non arrivando a dire i nomi, sembra, nel leggere le pag. 31 e 32, che li abbia conosciuti personalmente dato che a un certo punto afferma: “essi compirono alla perfezione i progetti del committente”. Pur essendo confusa e contraddittoria su chi fosse questo committente e sul secolo di costruzione, è certa che questi muratori abbiano lavorato a Sant’Urbano all’Esinate (“… abbazia alla quale può essere riferita una consacrazione d’altare del 1086 di cui si ha notizia” e con questo adombra indirettamente la data di costruzione di tutta la chiesa) e che poi siano andati a Santa Croce dei Conti. Per sostenere questa tesi deve necessariamente ignorare un edificio lontano come Germigny-des-Près, che è una imitazione della chiesa di Aquisgrana, come dice il vescovo Theodulf che la fece costruire, e deve insistere su un’ideazione solo locale. Nel testo “L’Abbazia Benedettina di Santa Maria delle Moje”, non disdegna, comunque, di riferirsi ad altre chiese, pur mettendone in evidenza aspetti meno importanti, come accade con Santa Maria di Portonovo, Sant’Elena, il Duomo di San Leo, arrivando all’Umbria, all’Italia padana e alla Svizzera, rimanendo sempre però ben lontana dalla Francia. Hildegard Sahler con determinazione decide che queste chiese delle Marche siano locali e lontane da Carlo Magno: è per questo motivo che volutamente e palesemente ha nascosto Germigny-des-Près di cui parla esclusivamente nel suo corposo volume su San Claudio dicendo che la chiesa francese ha sei absidi. Il passaggio successivo è ancor più interessante: infatti, mentre la Studiosa scrive che la chiesa di San Claudio al Chienti “FORSE” è stata costruita nel 1030, dato che secondo lei si ricava dall’architettura, Furio Cappelli su Italia Medievale on line, fa sparire il “FORSE” e dice che la Sahler, “ha comprovato” che San Claudio al Chienti è dell’XI secolo. Wikipedia a sua volta dà per certa questa data così che infine tutti trasformano un “FORSE” in certezza. In fondo è quello che è successo al corpo trovato nel 1926 a San Claudio e che da qui è scomparso: dove si trova? In Svizzera? Ad Aachen? In attesa che, scomparendo i testimoni oculari o indiretti, si perda la memoria del ritrovamento del 1926 e il corpo sarà poi“casualmente”ritrovato in Germania? Lo chiameranno Ottone? Ottone III?
Albino Gobbi
17 giugno 2017