Mi sono già occupato abbastanza della questione di chi abbia in realtà fondato Roma, spiegando, per chi ancora non mi ha letto, che sono stati i Popuni come loro si definivano, ovvero i Piceni come loro stessi si ribattezzarono dopo parecchi secoli che erano ormai romani de Roma. Le mie ipotesi a riguardo le ho formulate nell’ignoranza dei testi specialistici, dopo aver letto e non aver condiviso i lavori “divulgativi” sull’argomento che non legavano con i lasciti di cultura materiale.
Rinvenimenti nelle necropoli – La mia lettura è stata quella delle emergenze archeologiche disseminate nei musei del centro Italia, assemblate nei loro significati socio economici per ciò che mi suggerivano gli oggetti rinvenuti nelle necropoli fra i secoli XI – VII a. C.. L’argomento l’ho inserito nel divenire delle civiltà Italiche nel saggio “Le Marche le terre dei Piceni e dei Salii un patrimonio da rivalutare” – Fermo 2016, dedicandogli un capitolo titolato “All’inizio delle storie scritte – La Romanità.”. Per queste mie ipotesi sulla “koinè dei fondatori” (pag 81 e segg.) misi in nota a piè pagina che la trattazione non aveva grandi pretese di rigore scientifico, ma era lo sviluppo dedotto da una situazione materiale concreta. Scrissi sempre in nota premettendo “per non spargere il sorrisetto di chi legge sul resto del testo” che Numa Pompilio e Anco Marzio potevano essere nomi Piceni (pag 82 ref anche il precedente Ab Urbe Condita 3 La Rucola 225).
Le considerazioni del Pallottino – La recentissima ristampa del testo di Massimo Pallottino “Etruscologia” – Hoepli 2016, mi ha permesso di accostare alle mie considerazioni le opinioni espresse dall’autorevolissimo etruscologo sull’argomento. Infatti, nella trattazione del periodo villanoviano nell’Italia centrale (alla vigilia della fondazione dell’Urbe) a riguardo delle esperienze culturali sulle coste adriatiche scrive che “…le più antiche e caratteristiche e splendide [sepolture] si ravvisano nelle necropoli ad inumazione della regione picena, cioè nell’Abruzzo e nelle Marche” ( pag 52) citando le necropoli di Campovalano, Ascoli, Belmonte, Fabriano, Pitino, Numana, Novilara, Capestrano e Alfedena. Spiega quindi che queste culture medio adriatiche penetrano nel cuore della penisola fino alla Sabina, Umbria, Lazio, Campania e che sono le stirpi italiche dei Sabini, Sabelli, Sanniti e Umbri.
Dal “Piceno” le origini di Roma – Questi Italici orientali sono scesi in buona sostanza a Roma nel VIII secolo a.C. percorrendo la valle del Tevere provenienti dall’area culturale medio-adriatica …che diciamo ‘picena’ (pag 80). Secondo Pallottino queste genti parlanti osco umbro, non sono “Piceni”, ma Sabini perché questo nome compare in una iscrizione, una sola, (pag 81) e sono estesi dalla costa adriatica al Tevere “...fino a raggiungere Roma ed essere implicati nelle sue stesse origini…” (pag 141). Ci siamo: nella mia ipotesi l’Urbe è stata fondata da quella koinè nella quale, parole di Pallottino, sono implicate le genti provenienti dal medio adriatico (di cui testimoniano le necropoli anzi citate).
Il dettaglio formale – Il bisticcio non è nella sostanza cioè che le genti la cui cultura si estrinseca nelle sepolture nostrane siano i fondatori di Roma, lo è solo in un dettaglio formale, una etno-etichetta, per il Pallottino sono Sabini anziché Popuni ovvero Piceni da cui origina il toponimo regionale che vive ancora oggi (c’è Ascoli Piceno e non Ascoli Sabino). Siamo ancora una volta nella terra (il Piceno) delle eccezioni: gli Etruschi hanno l’Etruria, i Latini il Lazio, i Venetici il Veneto, i Liguri la Liguria e così via, ma i Sabini anziché essere una delle stirpi laziali che vivono nella Sabina come ho sempre creduto di sapere, sono invece medio adriatici e le loro origini sono nostrane, perciò mi spiego perché nella visione del Pallottino i Piceni (basta la parola) divengano “un grande fantasma che ci perseguita”, frase a effetto richiamata anche dai prosecutori (A.La Regina, A.Naso).
Riordinare le “etichette” – L’autorevolissimo etruscologo precisa pure che Anco Marcio (arcaico di Marzio, pag 142) è un Sabino (quindi uno di quelli venuti dalla costa medio adriatica ovvero dalla regione picena) cui succede una dinastia di etruschi; questo ultimo fatto dedotto semplicemente dal nome Tarquinio. Anche nella nota 6 pag 82 del mio lavoro “Le Marche” non scrivo cose molto diverse, anzi… ma la mia citazione chissà perché suscita il sorriso. Il vero problema, secondo me è semplicemente quello di rimettere a posto le etichette. Mi spiego meglio: l’inizio della cultura Etrusca a esempio è comunemente identificato dagli oggetti classificati come appartenenti al “periodo villanoviano” o “proto villanoviano” definizione che origina dal sito di Villanova di Bologna nel quale si trovarono per la prima volta le urne cinerarie di questa cultura. Chiaramente nelle abitudini degli archeologi questo toponimo diventa una etichetta stilistica astratta che viene applicata a tutti i reperti di questa facies che in Italia sembrano collocarsi all’origine stessa degli Etruschi principiando suppergiù nella Toscana meridionale, identificando quindi le testimonianze della loro cultura come protovillanoviana, quindi senza un collegamento geografico con il sito bolognese. Il toponimo diventa appunto una etichetta, come Hallstatt, La Téne, Cro Magnon, e anche questi toponimi non hanno alcun legame con le origini della cultura che identificano, anche se sembra che tutti lo dimentichino, così Hallstatt diventa una cultura austriaca e La Tène svizzera, quando invece i reperti sanno di centro Italia.
I Sabini sono andati dietro un picchio… o no? – Se è solo una questione di etichette, passi pure che gli antichi abitatori della nostra regione “picena” (lo scrive anche Pallottino) si chiamassero Sabini, purtroppo noi del grande pubblico forse non abbiamo la stessa elasticità interpretativa, anche perché nelle pubblicazioni divulgative “ufficiali” si legge esattamente di un viaggio in direzione opposta (dietro un picchio!). Comunque sia mi sembra di non aver perpetrato eresie, (etnonimi a parte) a scrivere che i fondatori di Roma scesero dal Piceno.
Un distintivo: il torquis – Mi lascia però ancora perplesso la parlata Osco Umbra di queste genti Italiche. Ho letto che gli Osci, con una loro lingua, sono i campani della porzione settentrionale dell’attuale regione, che proprio non confina (quindi non si avevano contatti diretti e non si potevano scambiare parlate) con la piccolissima area dell’Umbria preistorica corrispondente a meno della metà dell’attuale (la parte occidentale era Etruria), territorio che per essere così striminzito e senza grandi risorse naturali per accumulare plusvalenze e massa critica di scriventi, non poteva produrre una lingua scritta (lo stesso dice V. Kruta dei Leponzi, a proposito dell’iscrizione di Como Prestino). Leggendo una delle tante pagine sulle Marche preistoriche ho appreso che gli Umbri erano qui da noi praticamente fino ad Ancona (quindi nel Piceno) perciò ritorniamo anche qui alla questione delle etichette astratte: in concreto la protagonista di questa storia sarebbe perciò sempre la popolazione arcaica delle Marche, che in quanto a risultanze archeologiche è indistinguibile dai viciniori a eccezione del fatto che gli abitanti di qui vivono col torquis gallico al collo.
E siamo di nuovo ai Pupuni!
Riassumendo la sostanza: gli abitanti delle Marche che scendono a fondare Roma provengono dal Piceno storico, ma sono etichettati Umbri e Sabini (oggi va di moda scrivere… “a loro insaputa”). Se accetto (anzi condivido) la traduzione fatta da Giovanni Rocchi del lemma iguvino OMBRIIEN = ombra (ombriien akren = in agro umbro per A. La Regina) gli Umbri sono quei medio adriatici ovvero quei piceni che stanno dalla parte in ombra dell’Appennino, dove tramonta il sole per chi guarda dalla costa, (caso analogo è la Foresta Umbra pugliese, anche essa invisibile dalla costa e non affetta da una presenza etnica specifica men che meno dagli Umbri). Quindi in ultima e sostanziale analisi parliamo di stirpi marchigiane ovvero storicamente Picene (più d’una stele funeraria nostrana recita: “Pupunis estuk apaios”[trad. G.Rocchi: un uomo giace qui morto]- Apaes qupat [e]smin pupunis nir [trad. G.Rocchi: morto giace qui il Popuno valoroso]) che hanno innescato con la loro cultura e la loro presenza la grande parabola della romanità. Non ho altro da aggiungere salvo che se questa era la regione dei Sabini, con tutto il rispetto, il famoso ‘Ratto delle Sabine’ potrebbe essere un… antico roditore del nostro litorale! Amen.
Medardo Arduino
28 maggio 2017