Ci sono dei libri che non riesco a leggerli più di una volta, come ad esempio quelli che scrivo io; altri, invece, li leggo e rileggo, non perché sono astrusi, di difficile comprensione e ho bisogno di leggerli più di una volta, ma perché hanno una carica interiore tale da spingermi ad approfondirli in cerca di significati e di sentimenti sfuggiti ad una prima lettura fatta in fretta e forse disattenta.
La nuova pubblicazione di Matteo Ricucci “Caravaggio (e) le ombre dell’anima”, l’ho letta per tre volte consecutive e ho scoperto, ogni volta, un’anima nuova, un’ispirazione letteraria ed un naturale indirizzo letterario che mi erano letteralmente sfuggiti o non compresi appieno. E allora mi sono chiesto: questi libri e lo stesso loro autore Matteo Ricucci quante altre anime hanno, oltre quella razionale in comune con tutto il genere umano?
In preda a questo dubbio, mi sono perso, smarrito nell’arida distinzione filosofica dell’animus e dell’anima incontrata del De Officiis” dell’arpinate Cicerone. Mi sono fermato “sull’arida sponda” dei miei pensieri, quasi arenato come “La nave dei sogni di un Marinaio mancato”, ho dispiegato altre vele per solcare migliori acque, e dopo aver importunato Severino Boezio e a lui affidatomi nella disquisizione sulla persona umana, con lui ho rintracciato le due componenti essenziali della persona umana, corpo ed anima, ma mi sono fermato non sul due bensì sul numero tre, il numero della perfezione relativa, chiedendomi se anche lui, il dottore Matteo Ricucci, avesse l’animus quo vivimus! Certo che ce l’ha, è stata la risposta immediata e sa anche bene, come medico, che senza quel principio vitale “quo vivimus” non si può vivere da parte di tutti gli esseri viventi! Ha anche l’anima immortale, qua rationamur” ho continuato a chiedermi. Certo, ho affermato con maggiore insistenza con il citato autore del De consolatione Philosophie: anche lui l’ha avuta da parte di Chi ha creato, e crea, l’umanità intera a Sua immagine e somiglianza e a tutti comunica un frammento della Sua libertà, della Sua volontà che tutti rende idonei ad esercitare il proprio libero arbitrio!
E la terza?
La Logica aristotelica direbbe: non datur! Non c’è!
Per cui, è giocoforza, a questo punto, uscire da questo ragionamento filosofico e guardare altrove, proprio per correre migliori acque.
Dove dirigere la navicella del mio ingegno per rintracciarla?
Unico approdo: la sua formazione letteraria, rispondo, nella triplice anima del naturalista, del verista e del realista: tre anime riscontrabili in chi, Matteo Ricucci, si è lasciato prendere naturalmente da questa tendenza letteraria, pittorica ed artistica.
Queste tre “anime”, il saggista Ricucci, riconoscendole primariamente in sé come caratteristica di un verace scrittore garganico, le ha cercate e riscontrate nel Michelangelo Merlasi, il Caravaggio, suo pittore preferito, presentandolo agli studiosi con la sua anima sempre in rivolta e segnalandolo alla nostra società contemporanea.
Matteo Ricucci non è nuovo a queste “anime” e a queste manifestazioni letterarie, volte ad indagare le recondite pieghe dell’animo umano. È sufficiente citare alcune sue opere, quelle poetiche: I castelli di sabbia del 1970, Tra le dita del vento del 1977, Cavalcando le nuvole del 1983, I silenziosi passi della sera del 1992 e La lanterna di Diogene, che dal sottoscritto si meritò un “contraltare” degno di nota . I romanzi: Il rosso fiore della violenza del 1985, La follia sull’altalena del 1991 e L’orlo dell’ombra del 1986, suo capolavoro, dove il lembo ultimo dell’ombra dà luogo alla vera luce. Tralasciando altre sue opere, romanzi e saggi.
Nelle sue opere, il Ricucci, forse inconsapevolmente ma secundum garganicam eius naturam, come ebbi modo di segnalare in un altro mio intervento al termine di una sua generosa e sentita presentazione di un mio libro, vive e fa vivere queste tre anime letterarie abbordandole, come sa fare lui, una per volta con il naturalismo, con il verismo ed infine con il realismo tratteggiandole e addomesticandole con sottili ma efficaci pennellate quasi alla Rubens, ma che dopo la pubblicazione dell’ultimo suo lavoro sul Caravaggio, possiamo definire “caravaggesche” anche le sue, perché anche Matteo Ricucci mira a rappresentare la realtà senza alcun abbellimento ma appuntando il suo occhio sulla realtà nuda e cruda, come nel Cecco Boneri tradotto dal Caravaggio in Amore vincitore (pag. 35).
Le opere di Matteo Ricucci, se lette con accortezza nei diversi passaggi di pensiero, ti immettono in una o in tutte e tre le suddette correnti letterarie, come in tre anime distinte e separate, una diversa dall’altra ma convergenti verso l’unica poetica “Ricucciana”.
E così già dalla introduzione all’Orlo dell’ombra, dove l’autore, dopo qualche descrizione, che qualcuno definirebbe folcloristica ma dal sottoscritto immessa nel movimento verista garganico, si eclissa, non figura affatto nel romanzo, non giudica i suoi personaggi, e l’iniziale “naturalismo” cede il posto al Verismo, il quale, a sua volta, da un momento all’altro ti fa trovare vis à vis di fronte ai dettami positivisti contrapposti ai canoni del linguaggio accademico e romantico.
Siccome stiamo parlando di Matteo Ricucci, autore del volume sul Caravaggio, non vorrei che si equivocasse: le tre anime di Matteo Ricucci non sono quelle di Michelangelo Merisi, detto appunto Caravaggio, perché mentre questi è del tempo corrispondente al 1571, il periodo di tempo “ Il più terribile e angoscioso di tutta la storia europea” (pag. 6), Ricucci è figlio del nostro tempo, anche se del secolo scorso con data di nascita 1931. Proprio guardando a quel secolo terribile, a cavallo tra il Rinascimento e il Barocco, il Ricucci, mette le mani avanti in difesa del Caravaggio, come se lo facesse nei propri riguardi, ci tiene ad auspicare per il Merisi “ che l’infinita bontà di Dio gli abbia comunque concesso il perdono dei suoi peccati a causa dei meriti acquisiti per mezzo delle infinite anime, le quali, nella contemplazione delle sue tele, hanno trovato, trovano e troveranno, finché il mondo esisterà, la forza e il coraggio di convertirsi e di guadagnarsi le salvezza eterna” (pag. 29). E questo perché quel mondo burrascoso fa parte in qualche misura anche dell’anima religiosa e razionale di Matteo Ricucci e adombrato in modo specifico e convinto, credo, nell’opera poetica autobiografica la “Lanterna di Diogene”.
Giustamente, proprio per queste infinite anime, è d’obbligo per Matteo Ricucci inquadrare, e lo fa egregiamente, il Caravaggio nel suo tempo del 1600, quando come lui sorsero “artisti geniali e folli uomini di strada”, ed eminenti santi (pag. 10), aggiungiamo noi, facendo eco a quanto annotato da Matteo Ricucci “Caravaggio … utilizzò come modelli i miseri e i perseguitati la cui sofferenza faceva storcere il naso ad alti prelati della santa romana Chiesa”.(pag. 6). “Tempo di monarchie gelose; faide sanguinose … lotte di potere… contro il brigantaggio… maschi scuoiati vivi, impalati o dati alle fiamme…Donne e bambini resi schiavi….Folle di poveri sbandati… occhio diabolico del Tribunale della Santa Inquisizione… Papi che inasprivano leggi… l’apparente celibato vocazionale dei religiosi… la prostituzione femminile e maschile… gli eserciti di prostitute, di omosessuali, di pedofili… le rapine, assassini e ratti fulminei… Chi poteva, e spesso anche chi non poteva, che si armava di pugnale e di stocco per difesa personale… E poi la legittima conclusione: Ecco perché Caravaggio fu figlio del suo tempo e il suo comportamento si specchiò nitidamente nella Società in cui il Creatore lo aveva collocato” (Pagg. 7-9).
In risposta e a conferma di tutto questo po’ di roba, Ricucci piazza a pag. 11 la tela che ne può essere riassuntiva: Il Sacrificio di Isacco”! Pittura realizzata dal Caravaggio, però volutamente non conforme alla descrizione che troviamo nella Bibbia, ma rispondente alla precisa anzidetta formazione del Merisi, forgiatasi nel 1600 con una tragicità, marcata, in questo caso del sacrificio di Isacco, in modo evidente dalle mani di Abramo e da quel pugnale nelle mani del Caravaggio, pronto a usarlo come quando brandiva la spada, che maneggiava con destrezza e che sarà quindi, nel bene e nel male, la fedele compagna della sua vita” (pag. 15), per trafiggere chiunque si fosse opposto o avesse tentato di contrastare le sue idee bellicose e a rintuzzare il suo carattere irruente.
Secondo questa formazione letteraria da Naturalista, del pittore e dello scrittore, non poteva mancare il volto stesso del Caravaggio, con i suoi tratti facciali burberi e direi arrabbiati, cupi e pronti all’ira. Questo volto il Caravaggio lo nasconde tra i personaggi delle sue tele dove lo marca con quell’oscurità truce del suo animo in rivolta. Lo si osserva nel personaggio di destra dell’Ecce Homo e, più marcatamente, come Autoritratto nella tela “Davide con la testa di Golia”.
Tutta qui la ricerca di Matteo Ricucci? Se mi provassi a rileggere il libro per una quarta volta, troverei certamente dell’altro e allungherei il brodo delle mie osservazioni.
Senza alcuna pretesa di ergermi a critico, ho voluto soltanto abbordare un ulteriore tentativo di inquadrare lo scrittore garganico, che vive da molti anni a Macerata, dove ha esercitato anche la sua professione di medico, nelle correnti letterarie a lui più congeniali e ribadire che il Ricucci del nostro Sperone d’Italia merita maggiori considerazioni ed approfondimenti per vederlo consegnato alla storia letteraria della nostra bella Italia quale esponente locale del Verismo garganico, in attesa che si definisca il Verismo, il Naturalismo ed il Realismo non solo di importazione ma con radici autoctone della nostra Italia Meridionale per un discorso più ampio.
Volendo concludere questi brevi pensieri e per sentimi anch’io sulla scia di qualcuna di queste correnti letterarie, sento di sottolineare che mai (e non perché sono quello che sono!) mi sarei permesso di includere in uno dei miei libri la descrizione sfacciatamente realistica delle pagine 72 -73 dove “si riporta” la inumana vicenda di un tale Tassi ”volpe furba” e di una tale Artemisia “la gallina dalle uova d’oro” con un tale realismo,verismo e naturalismo, fusi insieme, da rasentare una forma di velata pornografia, perché Matteo Ricucci, in realtà, voleva soltanto dire (e lo ha sottolineato!) che “Agostino sbarrò la porta e, dopo una lotta feroce, strappò dal giardino dell’amico la sua rosa preferita, gettandola nell’immondezzaio”. Senza di quella descrizione, questa sarebbe stata sufficiente a far comprendere al lettore la drammatica e scabrosa situazione.
È pur vero che il nostro, quasi corregionale, Quinto Orazio Flacco di Venosa “Lucanus an Apulus anceps” ebbe a sentenziare che “Pictoribus atque Poëtis, quidquid audendi sempr fuit aequa potestas!”.
A volte, però, quando si esagera, anche se si riporta roba altrui, si può correre il rischio di distruggere non soltanto la propria anima sensitiva insieme a quella razionale, ma anche quella letteraria. E quel perdono dei peccati, invocato per altri, potrebbe nuocere invece a chi l’ha invocato con tanto amore e calore, quia mala restringenda, tantum bona (favores ampliandi) ampliando,,sentenzia la Morale Cattolica!
Padre F.Taronna
07 febbraio 2017