Don Umberto nel 1933 era già stato pievano di Santo Stefano e cappellano nella Collegiata di San Giovanni, aveva appreso dal suo prevosto l’arte del pragmatismo. Di lui si narravano mirabolanti imprese nei confronti di fanciulle e di coppie “abusive” frequentanti la “fonte delle trippe” o la “gabbetta de Cascio”. Forse perché conosceva anche lui il Cardinal Tacci o forse perché, anche nei suoi confronti, si adottò il ben noto “promoveatur et reliqua…”, passò come Uditore presso la rappresentanza pontificia a Londra. “Scomparve” iniziando il giro del mondo americano (era nativo di Buenos Aires) ironizzando sulla spocchia dei governanti, ambasciatori, monsignori ecc. portando con sé tutta l’ironia marchigiana che gli faceva vedere questa gente sotto un profilo non del tutto ortodosso. Passò per diverse nunziature conservando una grandissima nostalgia per la chiesa di San Giovanni e, ancora di più, per quella di Santo Stefano. Appena poteva tornava “in sede”, jò li Cappuccì vecchj, per rivedere “Pietro de li rusci”, “Barbanera”, “Carlì”… ingaggiando con loro interminabili partite a “quindì” e a bocce, ovviamente a “cambu libbiru”. Immediatamente, insieme con il suo Monsignor Leonardi, organizzava incontri con “sor Gigi Nicolini”, repubblicano, storico e anticlericale incallito. Alla porpora cardinalizia preferiva “lu pennazzò” nero della talare. Quando poi andava da don Pietro, a “lu colle de Tulindì” si metteva addirittura in maniche di camicia insieme con l’amico, ugualmente Cardinale, Guerri. Altre partite a bocce, stavolta “dendro la gangia”, più complicate ma sempre appassionanti specie per i contadini dei dintorni accaniti avversari. Quando fece il suo primo pontificale nel nostro Duomo, alla fine della celebrazione, preceduto da un imponente corteo di seminaristi, sacerdoti, canonici, autorità (Prefetto, Sindaco, Presidente del Tribunale ecc. fino al ben noto “ottavo grado”) passò per la sacrestia. In quella bella stanza grande, stavo ammirando il passaggio di tutti questi personaggi quando l’Eminentissimo si staccò dalla serie di marsine, toghe, cappe ecc. e mi apostrofò: “Paci! Che ci-hai ‘na sigheretta?” Rimasi male: non ce l’avevo! “Embè, che ‘spetti? Valla a ttroà’!” La trovai e l’Eminentissimo andò a fumarsela in pace sul portone dell’episcopio, fra due carabinieri schiaffati sull’attenti. Poi, levate le inevitabili “mense” con tutte le autorità civili, militari e religiose, don Umberto tornò di corsa ai Cappuccini Vecchi.
28 ottobre 2016