“Ragazzi, perché non mi portate lontano questo gatto nero? Ogni giorno me ne combina una; però portatelo il più lontano possibile, chiuso in questo sacco nero, così si sentirà spaesato e non tornerà più a casa!”
Detto, fatto.
Eravamo in 5, tutti con la bici. “Dove si va?” – “A Madonna del Monte!” Il gatto era dentro al sacco… potevamo dire: “Gatto!” Ma il gatto, tra sé e sé: “Te la dò io Madonna del Monte!” Un gatto nero, in un sacco nero, sul manubrio di una bici, nera per giunta! Mah… Nessuno cantava “volevo un gatto nero” non solo perché non era ancora stata cantata allo Zecchino d’Oro ma, soprattutto, perché quello non era il momento. Il primo della fila, responsabile del gatto, si era messo a correre come un invasato per portare a termine la missione prima possibile. Pedalava anche in discesa e urlava per la paura perché il gatto era nero, perché il felino cominciava ad agitarsi e… poco dopo Fonte della “Cerqua” il gatto aveva messo “un bastone fra le ruote”: era finito tra i raggi! Il Giro d’Italia: cade uno, cadono tutti? Qui la stessa cosa. Il primo non poté evitare la caduta, gli altri quattro frenarono a secco ma, a quei tempi, la strada non era asfaltata e la sbandata, con relativo ruzzolone, fu la logica conseguenza. Si aprì il sacco, venne fatto uscire il gatto che, sconvolto ma baldanzoso, senza pensarci su un momento, cominciò a correre a ritroso verso casa, dimostrando grande senso di orientamento. Anche noi ritornammo a casa, con i cerchioni storti, le braccia e le gambe sbucciate. Tutta colpa del gatto “nero”? Mi sa tanto che la colpa fu solo nostra.
Umberto
07 ottobre 2016