Questo che segue è il racconto di quando assistetti a Treia, era l’1 agosto del 2010, per la prima volta alla famosa “disfida del bracciale” che si svolge ogni anno dalla fine di luglio ai primi di agosto (la finale del 2016 si svolgerà il 7 agosto).La prima cosa che mi venne venuta in mente, osservando le due squadre avverse composte di tre campioni ciascuna, fu la sfida fra Orazi e Curiazi… e forse proprio da quella tenzone è sorta la tradizione della disfida del bracciale, cantata in passato anche dal Leopardi.
Trea è l’antico nome romano della dea alla quale era dedicata la città che nel medioevo fu chiamata Montecchio e successivamente fu ribattezzata con il suo nome originario. La cosa avvenne verso la metà del secolo XIX, consenziente il papato che allora dominava nella Marca, e accadde subito dopo il ritrovamento nel sottosuolo del santuario del Santissimo Crocifisso di alcune statue egizie, raffiguranti la dea Iside, che furono poi istallate sulla facciata della chiesa stessa, riconoscendo così la sacralità antecedente e precedente la costruzione del santuario cristiano, costruito appunto sui ruderi di un antico tempio dedicato a Trea, nome romano della dea egizia. Qui a Treia la Dea Madre è ancora viva anche attraverso il culto della “madonna nera” di Loreto di cui è conservata una statua, nella chiesetta barocca di Santa Chiara, una copia (o, forse, l’originale) ivi trasportata durante l’occupazione napoleonica.
Ma occorre che io ritorni al presente, alla disfida del bracciale e agli eventi vissuti in questo primo di agosto, una giornata densa di eventi e d’immagini, una sequenza quasi sognata di un ritorno al passato -presente- e molto reale… Veramente questa mia giornata è iniziata la notte del 31 luglio, con l’ascolto di racconti sussurrati nell’accademia Georgica da un segretario compito e accurato, che ha descritto nei particolari tutta la storia di Treia, la cui memoria – sotto forma di pergamene e libri – è conservata nel palazzetto attribuito al Valadier. Lì, mentre la musica a palla impazzava in piazza, fuori dalla bolgia e dentro una nicchia di rimembranze di gloriosi trascorsi, ho appreso ad amare Treia. Ovvero la sua cultura giacché ad amare la sua bellezza, il suo odore di pulito, le sue mura tonde, le colline attorno, la pianura verde coltivata e i suoi tramonti, avevo già iniziato da quando son qui ad abitarvi.
E oggi l’apoteosi dei colori…. mentre attonito mi mescolavo alla folla ridente e pulita di donne floride, bambini, anziani, marchigiani e stranieri, turisti e lavoratori di colore, tutti insieme senza distinzioni né separazioni: una società senza discriminazione fra esseri umani.
Il corteo in costume dei rappresentanti dei 4 quartieri che gareggiavano per la conquista del Palio era variopinto: nobili verdi, artigiani viola, contadini azzurri e zingari gialli… Sì, avete letto bene, anche il quartiere degli zingari -assieme con gli altri- ha partecipato alla gara. Forse Treia è l’unico posto in Italia dove gli appartenenti di questo popolo nomade ha ricevuto lo status di “compaesani”. Il nome dei vari rioni é molto evocativo: Vallesacco, Borgo, Cassero e Onglavina.. ognuno con i propri colori, erano gli stessi colori della fascia che stringeva la camicia dei giocatori, tre per ogni squadra, che si sono confrontati nel gioco più antico d’Italia, quello di una palla di cuoio lanciata a lunga distanza con un bracciale di legno duro e punzuto.
La palla volteggiava nell’aria, sbattendo a volte su una muraglia che costeggiava il piazzale della partita, mentre il pubblico gremito ai lati osservava senza spaventarsi per le frequenti cadute del proiettile tondo in vicinanza delle loro teste. Descrivere la regola del gioco non è semplice e forse è meglio che io mi tenga nel vago… sperando così di invogliare il lettore a voler assistere al prossimo torneo…
Paolo D’Arpini
2 agosto 2016