Quello che vedete in foto a noi sembra proprio un cartellone pubblicitario di epoca romana e, con la traslitterazione e la traduzione appropriate, potrebbe diventare l’ennesima attrazione turistica. La rucola ne propone l’analisi con uno scritto dell’esperta Emanuela Properzi, che ne ha fatto la “decifrazione” (ci si passi il termine) e la confronta poi con lo studio ottocentesco del Colucci.
Epigrafe del costruttore edile Caius Saluius Vitellianus
VITELLI AE(∙dem)
[et] C(∙larissimae) F(∙oeminae) RVFILLAE
C(ommvni) S(vmptv) A(nnonario) LVI LIBERALI S(acra) Co (n)S(trvxit)
FLAMINI(cae) SALVT(ar)IS AVG(vstei) MATRI
OPTVMAE
C ∙ SALVIVS VITELLIANVS ∙ VIV(ae) O(pvs) [dedit] S(epvlcro)
Costruì la casa di Vitellio
(e) della chiarissima donna Rufilla;
Con il denaro annonario della comunità (costruì) il tempio a Lua-che-libera (cfr. il teonimo arcaico Lua, Luae, modernizzato in epoca tardo-repubblicana come Lues, Luis, dat. sing.: Lui);
Per la flaminica ottima “Mater” del (tempio) augusteo di Giove Salutare, ancora in vita,
Caio Saluio Vitelliano (costruttore edile, liberto dei Vitelli) diede inizio (= opus dedit) al sepolcro.
Nota Filologica sui precedenti tentativi di lettura.
A suo tempo, riguardo all’epigrafe in oggetto, l’abate marchigiano Giuseppe Colucci (1752-1809) si espresse in questi termini: “Dopo aver ragionato della università degli Dei Urbisalviesi daremo luogo alla memoria di una Sacerdotessa qual era Vitellia, moglie d’un C. Salvio Liberale, e madre d’un C. Salvio Vitelliano. La memoria di costei esiste in una gran tavola di marmo collocata nella facciata della casa del Pievano di S. Lorenzo di Urbisaglia, la quale è riportata anche dal Compagnoni, e dal sullodato P. Lupi nella citata lettera. Io per altro la trascrissi tre anni sono dal suo autografo in occasione che, passando per colà feci qualche osservazione sopra i ruderi della estinta città. È incisa con eleganti lettere, o, come dice il comendato Lupi, con caratteri grandi e maestosi, quali appunto si convenivano a un soggetto appartenente per così stretto titolo. Sembrerà forse molto comune, e naturale la interpretazione di questa lapida; ma pure a me sembra, che abbia i suoi stretti nodi, che meritano di esser sciolti. La prima difficoltà la ravviso nella parola accorciata COS. che nell’autografo sta così veramente colle 2 lettere C ed S della grandezza corrispondente alle altre lettere e con in mezzo una piccola O, come si è procurato d’imitare nel riferirla. In seguito non v’ha dubbio, che legger COS. Ma quest’accorciata parola vorrà poi significar Consulis, come significherebbe in altre lapidi. Io per me ci trovo tutte le più grandi difficoltà. In primo luogo perché nei fasti Consolari se trovo più d’un Salvio elevato alla dignità Consolare niuno ne trovo, che avesse il prenome di C. e l’agnome di Liberale. In secondo luogo, se volesse dir Consulis, converrebbe dire, che fosse eretta nell’anno istesso, in cui egli era Console, giacché diversamente non gli competeva un tal titolo. Al più potrebbe credersi, che volesse significare Consularis, cioè soggetto, che era stato già Console. Io per altro senza mistero dico il mio sentimento, ed è che con quell’accorciata parola si volle significare non già la dignità di C. Salvio, ma quel che era rispetto a Vitellia, cioè la qualità di marito, e che perciò o si scrivesse semplicemente CO. e poi vi si rimettesse non so come né da chi la seguente lettera S. o pure si scrivesse la S. per una N. per colpa del quadratario. In fatti se quell’accorciata parola non vuol dir Conjugi io dimando chi sarà stato quel C. Liberale rispetto a Vitellia, e per qual motivo entrava ad esser nominato in quel marmo? Come C. Salvio Vitelliano porterebbe il prenome, e il nome del padre? In somma si pensi nella maniera che si vuole è cosa certa che con quell’accorciata parola, ma sconcia per altro, o contraffatta, si vuole esprimere la qualità di marito rispetto a Vitellia. La seconda difficoltà a me sembra doversi incontrare sulla parola FLAMINI, che io credo sicuramente accorciata, e non in-tera, e non appartenente a C. Salvio Liberale, ma piuttosto a Vitellia. In fatti a chi è diretta l’iscrizione? Forse a C. Salvio? No certamente, ma sibbene a Vitellia. Dunque i pregi di Vitellia, e non di C. Salvio si dovevano rimarcare; e perciò quella parola FLAMINI a Vitellia, e non a C. Salvio si riferisce. In secondo luogo si osservi, che se si riferisce a C. Salvio Liberale non dovrebbe dir FLAMINI ma FLAMINIS in caso secondo, per accordare con C. Salvi Liberalis, che appunto è di caso genitivo. Laonde per quest’altra ragione ancora dobbiamo credere che FLAMINI non sia parola intera, e che si riferisca non a C. Salvio Liberale, ma a Vitellia di lui consorte, e che nell’accorciata parola FLAMINI s’intenda indicata la parola FLAMINICAE colla reticenza delle lettere CAE. Queste Sacerdotesse dette Flaminiche, come moglie dei Flamini non sono ignote nelle antiche iscrizioni Picene, siccome vedemmo in due iscrizioni d’Arridio, appartenenti all’antica Settempeda; e da me riportate già nel IV. Volume di quest’Opera dove appunto fu trattato dell’antica Settempeda. Chi bramasse di sapere cosa fossero queste Flaminiche basta che consulti il citato luogo, dove troverà ancor ciò che basta rispetto ai Flamini. Siccome i Flamini, così anche le Flaminiche erano dirette a qualche nume particolare. Il Nume, che in Urbisaglia aveva in cura questa Flaminica era quello della Salute Augusta, venerata già come Dea dalla stolta Gentilità. Anche questa Salute Augusta ebbe il suo tempio in Urbisaglia dove il Flamine, e la Flaminica esercitavano la propria dignità, e di questo s’ignora dove esistesse. Non si lasci finalmente inosservata l’ortografia delle due parole OPTUMAE per OPTIMAE VIVOS per VIVUS, che sono due Arcaismi non ignoti alla pronunzia, e all’uso di scrivere dei più Antichi Latini, essendovene moltissimi altri esempi in altre lapidi presso i collettori delle medesime”.
(G. COLUCCI, Antichità Picene, t. XIII, pp. 159-162, Fermo 1802).
Nota della redazione – Riguardo a Emanuela Properzi, redattrice del testo, si precisa che: è laureata in Materie Letterarie e Latino presso l’Università di Perugia, con tesi in Storia dell’Arte. Ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento di Materie Letterarie e Latino per le scuole medie secondarie. Ha seguito il corso di specializzazione in Storia dell’Arte medievale e moderna presso l’Università La Sapienza di Roma; ha seguito il corso di Paleografia e Diplomatica latina presso la Scuola Vaticana di Paleografia e Diplomatica. È in possesso del diploma di restauro dei dipinti su tavola e su tela. Ha pubblicato per L’Osservatore Romano i seguenti articoli: Le confraternite e la chiesa di Santa Maria dell’Orto (1976), La pittura di Osvaldo Licini (1977), Santa Maria in Cappella a Trastevere (1977), Quattordici lettere inedite dell’abate Lanzi (1977), Un convento agostiniano nel fermano (1978); per l’Informatore Piceno ha pubblicato: Torre di Palme: la chiesa di Santa Maria a Mare (1978). Ha al suo attivo diverse pubblicazioni di Storia dell’Arte quali: L’architettura e gli affreschi paleo-cristiani della chiesa di San Ruffino di Amandola (2002), L’opera prima marchigiana di Carlo Crivelli inedita oltre che esplicativa della sua pittura (2002), S. Paolo caduto da cavallo dipinto “ritrovato” del Parmigianino (2002); in collaborazione con Giovanni Rocchi: La Santa Casa da Nazareth a Loreto (2007), La casula di Thomas Becket a Fermo (2009). Ha collaborato con AA.VV. alla stesura di Un Paese in Mille Anni di Storia: Monte Giberto (2015). Recentemente ha pubblicato sul sito informativo della nostra associazione www.larucola.org: Storia della capsella della chiesa di Santa Maria di Montecosaro (2016).
19 luglio 2016