Successe nell’agosto di tre anni fa quando dovetti recarmi a Treia per una faccenda importante. In quel periodo c’era con noi nostro nipote Giacomo; Giacomo, che allora aveva 14 anni, vive a Milano dove è nato; frequenta il Liceo e i campetti di calcio; gioca a basket con i pulcini della “Armani Jeans”, indossa pantaloni sbracalati e ho il sospetto che militi tra i pulcini della contestazione. Quel giorno lo invitai a venire a Treia con me: mi avrebbe fatto compagnia e avrebbe rivisto il paese dove nacque il nonno (che poi sarei io). Capitammo che c’era la “Disfida del Bracciale” e tutta Treia era accorsa per incitare i campioni dei vari quartieri. Manco a dirlo ci lasciammo tentare e raggiungemmo le gradinate arroventate dal solleone. Giacomo aveva appena un’idea del “gioco”: ne aveva sentito parlare a casa e più volte aveva sghignazzato davanti alle fotografie del bisnonno che lo ritraevano accigliato, vestito da arbitro con tanto di barba e fischietto. Qui sul campo, invece, si era perfettamente inserito: lo colpì l’imponenza del muro di appoggio; lo incuriosì la presenza nel campo del “trampolino”, si divertì a seguire i movimenti del “battitore”, si preoccupò di seguire le traiettorie delle palle per evitare di essere colpito, assistette al recupero delle palle che finiscono nella scarpata mediante rudimentali teleferiche. Esaminò da vicino un bracciale, ne accarezzò la bugnatura e, visibilmente compiaciuto, ci infilò dentro la mano. Ma ciò che lo affascinò fu la palla! Chiesi notizie intorno e sapemmo che la palla è composta da otto spicchi di cuoio grasso e che gli spicchi sono cuci-ti a mano (!), che ha un diametro di circa 10 centimetri e un peso intorno ai 300 grammi.
Allora volli strafare: nel frattempo aveva preso posto accanto a me Franco Capponi che conobbi quando era l’efficientissimo Sindaco di Treia (ndr: lo è di nuovo oggi, nel 2016); gli presentai Giacomo, gli dissi che il ragazzo si era innamorato del “Gioco del Bracciale” e che aveva espresso il desiderio di avere a disposizione, per pochi minuti, una palla tra le mani per poterla soppesare e osservare da vicino. Capponi si guardò intorno, si alzò e si avvicinò a un tale con il quale scambiò poche parole e ritornò al suo posto. Mentre lo speaker gridava che eravamo a “trenta per i Rossi e quindici per i Turchini”, arrivò il tale con un sacchetto rigonfio in mano; si avvicinò e lo consegnò a Capponi il quale, senza dire una parola, lo appoggiò sulle ginocchia di Giacomo il quale, senza dire una parola nemmeno lui, arrossì, fece un larghissimo sorriso e aprì il sacchetto. La palla aveva ancora i segni della partita: era stanca e sudata; ma quando Giacomo, finito di accarezzarla, la porse a Capponi per restituirgliela, era ritornata lucida e pimpante. Come diventò pimpante Giacomo quando Franco, dandogli un buffetto, gli disse che la palla poteva tenerla come ricordo. Lasciammo il campo urlante e ci avviammo verso il parcheggio dell’ospedale. Superata la “Rotonda” imboccammo via Cavour che si presentò diritta, lunga, in leggera salita e, soprattutto, deserta. Allora Giacomo che fa? Dopo qualche palleggio rigira la palla tra le mani e la lancia in direzione ospedale per la curiosità di vederla tornare indietro. Subito, puntualissima, arriva alle nostre spalle l’unica macchina che a quest’ora circola per Treia. Noi, preoccupati per l’incolumità della palla, seguiamo i movimenti dell’auto con apprensione. La macchina rallenta. Si accosta alla palla che lentamente si sta muovendo per venirci incontro. L’auto si ferma! Si apre velocemente la portiera. Spunta una mano. La mano afferra la palla… e… via! Ci avviammo verso la macchina come due sonnambuli… appena saliti in auto, mio nipote e io sbottammo in una risata liberatoria: avevamo appena vissuto una situazione tragicomica che ci aveva lasciati annichiliti.
Lamberto Piermattei
28 giugno 2016