Pacì, addio sogno di essere… padrone del terreno!

Pacì di Colleanno (Pacifico) si era presentato a scuola verso la metà del mese di ottobre. Allora tutte le scuole iniziavano il 1° ottobre. Il ritardo di Pacì era dovuto al fatto che suo babbo aveva lasciato un terreno a mezzadria, non so dove, per assumere la conduzione di un altro più grande nei pressi di Castelgioco, sempre a mezzadria. Il reddito del terreno lasciato non bastava più a sostenere i bisogni della famiglia ormai cresciuta. Lo spostamento era necessario e aveva le sue regole da rispettare: si doveva fare l’aratura per le nuove semine (nel nuovo terreno avrebbe trovato l’aratura già pronta); c’erano da fare gli ultimi raccolti: il granturco, le mele, le noci, le ghiande per i maiali e la vendemmia dell’uva. Nel frattempo la mamma aveva riunito tutto quanto era di proprietà della famiglia: il corredo, le stoviglie e poco altro. Il babbo, nei momenti liberi, raccoglieva le sue masserizie e mano a mano le caricava sul carro, per essere pronto il giorno della partenza. Preparava le damigiane ove mettere il mosto da travasare nelle botti della nuova cantina. Il giorno stabilito, dopo aver salutato e dato le consegne al padrone, il babbo si metteva alla guida del biroccio, stracolmo di roba, quella poca che possedeva, lasciando il posto per un paio di sedie destinate ai vecchi genitori, ormai incapaci di percorrere un lungo tragitto a piedi. Questi avrebbero preso sulle ginocchia i bambini più piccini, che ancora non camminavano, e i più grandicelli quando avrebbero avuto la necessità di riposare. Sul carro, sopra ogni cosa, aveva messo le sponde del letto e il pagliericcio di foglie tenere di granturco. Con una corda legava a un capo il maiale e fissava l’altro al carro, sicché il maiale camminava dietro il biroccio. All’altra sponda del carro aveva legato un carrettino con sopra le damigiane del mosto, attento che non andassero rotte. Guardando questa scena di esodo, che si prestava alla interpretazione  di  un  poeta o di un pittore, si poteva osservare la tristezza, e qualche lacrima sul viso della mamma, che camminava dietro il carro tenendo per mano i figli più grandicelli, perché stava lasciando quelle mura dove aveva dato alla luce i figli, doveva aveva vissuto momenti di tristezza, stanchezza e sconforto, ma anche di gioia. Per un tratto, per quanto le era possibile, si girava per guardare per l’ultima volta la casa. Pacì era un bambino grassoccio, non tanto alto, aveva un difetto di pronuncia della parola, aveva, come suol dirsi in gergo, la lisca (porre la lingua sul palato e pronunciare “sc”, poi parlare normalmente per sentire la differenza di suono) e si rivelò a scuola un tipo piuttosto cattivo. Appena giunto nell’aula volle sedersi in un banco che la maestra aveva assegnato a un altro e alla protesta di questi, senza tanti preamboli, gli diede uno schiaffo per poi occupare imperterrito quello spazio. Pacì, anche se piccolo, volle farsi sentire superiore con la sua arroganza e a quello un pugno, all’altro uno schiaffo, ogni giorno trovava la maniera per picchiare. Da Leda, una ragazza bella robusta, volle la penna di lei perché era bella mentre la sua era brutta. Leda gliela negò. Pacì stava per affibbiarle uno schiaffo ma Leda fu più svelta e gli dette un pugno sul naso tanto da farlo sanguinare. Pacì da quel giorno seguitò a essere sempre arrogante ma non picchiò più alcuno: aveva capito che era cambiata aria. In quel momento arrivò in classe la maestra e volle sapere che cosa fosse successo; assegnò all’arrogante il posto vicino alla cattedra. Non avendo avuto la soddisfazione di restare nel posto che aveva preteso, afferrò la sacca (la borsa che la madre gli aveva cucito con la stoffa di un paio di pantaloni del babbo in disuso) e se ne andò dicendo che non sarebbe più venuto a scuola. La maestra lo lasciò andare via. Il giorno successivo era a scuola e nel banco che la maestra le aveva assegnato. Pacì aveva frequentato  la prima elementare ma sapeva appena scrivere e, assolutamente, non leggeva. La maestra ricominciò a fargli imparare l’alfabeto. Una volta gli mostrò la lettera “i” e gli disse che serviva per dire, per esempio, “imbuto”, facendogli vedere la figura. Nel ripetere Pacì disse che “i” era per dire “sallaì” (contrazione dialettale di “salva vino” – “sarva ‘ì’” o, anche, a seconda della zona “sallaì”), perché quella figura a casa sua era chiamata così, e non ci fu verso per la maestra di fargli dire imbuto! Un’altra volta l’insegnante lesse un capitolo di Pinocchio, chiese a Pacì di ripeterlo, anche perché imparasse a parlare, e lui lo riassunse così: “Pinocchio era scappatu da u patre perché non vulìa gì a scòla, védde i craravignéri e se ‘mpaurò, allora zompò ‘na senarda (senata, fosso o siepe di divisione fra due proprietà) e fuiétte”. Alla fine dell’anno, però, qualche cosa aveva imparato. Con gli altri bambini di terza elementare finii di frequentare quella scuola perché oltre la terza non si poteva proseguire. Chi ne aveva la possibilità andò in altre scuole ove poter conseguire il diploma di quinta elementare, gli altri rimasero con il diploma di terza. Passarono gli anni e rividi Pacì poche volte, era cresciuto in altezza ma la corporatura era rimasta massiccia. Poi passò la guerra con i suoi lutti e le paure, le deportazioni, l’angoscia delle famiglie per la sorte dei figli lontani.

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Ricominciò una parvenza di normalità e iniziarono le prime lotte di potere politico. Una parte cercava di ricreare l’Italia libera, l’altra voleva imporre le proprie idee per condurre l’Italia sotto il dominio della Russia dove vigeva un regime, con la scusa della uguaglianza, peggiore del fascismo. Costoro, però, credevano fosse un paradiso. Diceva Pacì, ben addottrinato: “L’essenziale è che si deve creare u proletariatu der popolo!”, poi che cosa volesse dire nemmeno lui lo sapeva. Quella parte politica prese una solenne sconfitta. Il Governo italiano, ormai libero, consentì che si creassero alcuni sindacati a difesa e tutela del lavoro e per migliorare in dignità, anche economica, le condizioni lavorative. E Pacì? Pacì andò a finire con un sindacato il cui Segretario era l’On. Scoccimarro (sorridendo ndr: scoccia marroni?) il quale sosteneva che le fabbriche dovevano essere dei lavoratori e non dei padroni, e le terre di chi le lavorava e non dei proprietari. Capirete come a Pacì, che era mezzadro, non parve vero sentire questi discorsi: sarebbe diventato “padrone” del terreno! Frequentò quel sindacato e i dirigenti capirono che su di lui potevano fare breccia, perché Pacì era capace di fare solamente quel discorso, come fosse stato un disco rovinato. Era il tipo giusto da mandare nelle campagne a parlare con i contadini e poiché ripeteva sempre le stesse cose di sicuro qualcuno lo avrebbe creduto, andando a ingrossare le loro file. Diceva Pacì: “Quilli scì so’ de parola, m’hanno prumissu che sarò un capu, unu de quilli che commanna, m’ha regalatu una Vespra e m’ha datu pure ‘i sòrdi pe’ comprà’ ‘a miscèlla”. Da allora fu soprannominato Scoccimarro. Il Parlamento approvò la legge che i mezzadri avevano diritto al 58%  del raccolto e quella che avrebbe dovuto togliere la terra ai padroni nemmeno fu presa in considerazione. Pacì, su tutte le furie, disse che erano sporchi reazionari al servizio dei padroni e che alle prossime elezioni avrebbero vinto i suoi ottenendo la rivincita. Così non andarono le cose e lui seguitò a fare propaganda non dandosi per vinto ma i contadini non considerarono più quel che diceva. La domenica mattina i contadini, accudita la stalla del bestiame e sistemate le altre cose per gli animali, andavano a messa. Poiché durante la settimana quasi mai avevano modo di vedersi quella era l’occasione per incontrarsi e parlare dei lavori della terra, della qualità dei concimi più adatti alle colture, del bestiame da vendere o comprare. Si riunivano davanti lo spaccio dove si poteva comprare un po’ di tutto. Qui c’era anche l’osteria e così, come era loro usanza, bevevano un bicchier di vino  prima di iniziare a salire verso la chiesa, che era posta in alto nel paese. Una domenica, mentre questi erano riuniti a parlare, arrivò Pacì con la Vespa, la fermò, scese e, con aria arrogante, passò in mezzo al gruppo anche se per passare c’era spazio di fianco. Uno lo guardò con sussiego e, poiché era un tipo assai ironico, facendo finta di nulla ma guardando Pacì, disse: “Una volta sapevo che le vespe andavano sopra i vigunzi (i bigonci sono i recipienti per trasportare la pigiatura delle uve e hanno sul bordo il dolce mosto che attira le vespe), adesso invece sono i vigunzi ad andare sopra le vespe!” (ndr: viunzu sta a indicare persona sciocca e credulona). Pacì rimase imperterrito, non disse una parola e se ne andò senza nemmeno partecipare alla messa. Poi si vide sempre più di rado e alla fine scomparve. Era andato a lavorare in un paese estero, non si seppe mai dove e che lavoro svolgesse. Di certo  non politico, altrimenti l’avremmo visto arrivare come un razzo… sparato qua con un calcio là dove non batte il sole! 

27 giugno 2016

 

 

 

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