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I fichi e il progresso

Per affermare che col passare del tempo il mondo non camabia, oppure per semplice celia, si ode cantilenare la quartina popolare:

 

Una òta a ttémbu andicu, / se pisciàa da lu muricu: /

 ‘mmo è cammiata costumanza / e sse piscia a ppè de panza!

 

Gli ultimi due versi di questa strofetta vendono a volte sostituiti da questi altri:

 

Lu progrèssu ha cagnato ‘gnicó, / ‘mmó se piscia um barmittu più ghjó.

 

Per contro si ode talvolta ironizzare sul buon tempo antico, facendo la proverbiale e paradossale affermazione:

 

A ttémbu andicu se magnàa la scòrza e se vuttàa lu ficu!

 

A un giovanotto che derideva i vecchi per la loro ingenuità e dabbenaggine, e che se ne era uscito con questa tradizionale denigrazione, un contadino ha ribattuto:

 

Dev’èsse che lu ficu era mannatu o vvinatu, e se condentava de le scorze. Come se dice? Chj nom pòle aécce lo tando, se condenda de lo póco.

 

Ora è da sapere che il fico va facilmente a male e non è che si possa valutare con sicurezza e alla prima occhiata se sia mangiabile o no. Quindi sono da precisare meglio i caratteri dei fichi immaturi o guasti. Si dicono mannati (menni) i fichi senza polpa, rimasti aridi e legnosi o, tutt’al più, spugnosi e bianchi. Un fico in questo stato è detto anche mapu. Sono vvinati (avvinazzati) i fichi inaciditi per la fermentazione alcolica in corso. Dai fichi gli antichi ricavavano vino, ma soprattutto aceto che, a dire di Galeno, aveva virtù medicamentose, oltre a quelle nutritive asseverate da Plinio. Tutt’oggi pare che in Algeria si usi ricavare vino dai fichi e si racconta che nelle zone montane abitate dai Cabili, spesso, gli abitanti si riducano in stato di ubriachezza dopo aver mangiato eccessiva quantità di fichi vvinati. I fichi che si spappolano facilmente e si presentano acquosi vengono detti acquarellusi oppure ‘nnacquariti e i contadini dicono che i frutti si riducano in questo stato per colpa, soprattutto, di nebbie persistenti. Invece ‘mmuciditi si dicono i fichi ammuffiti, specie nel cosiddetto “occhio”, o “culo”, vale a dire nell’apertura opposta al picciolo. In questo caso c’è chi da la colpa alla stagione troppo umida e chi, invece, la attribuisce a insetti non ben precisati, oppure a uccelli che dei fichi sono ghiottissimi, i beccafichi. Circa i fichi piccoli e striminziti, che a fine stagione rimangono sulle piante, quando le foglie sono già cadute, va ricordato che essi venivano colti e superstiziosamente mangiati il 4 novembre, giorno di San Carlo. Si credeva che avessero la “virtù” di scampare i cristiani, e per un anno intero, dalle sofferenze che possono provenire dal freddo e dal caldo. Un proverbio così certificava la credenza:

 

Chj magna li fichi de San Carlo / non zòffre né ffriddo né ccallo.

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