Mulini e macine

La macinazione di granaglie è un’attività umana antichissima, che risale all’età del Bronzo. Non c’è da meravigliarsi se nuove scoperte archeologiche la riporteranno più indietro nel tempo. Questa volta con le signore Delia e la figlia Antonietta andiamo a Moline di San Ginesio per conoscere le vicende di uno degli antichi mulini ancora funzionanti del medio Maceratese. Delia è nata e cresciuta in via Danti di Cessapalombo, Luigi Danti era il nonno materno che gestiva un piccolo mulino in quella località, oggi in disuso. Con gli asini da Monastero arrivavano a quel mulino tutte le 39 famiglie di quella frazione percorrendo le mulattiere di Col di Pietra e Invernale e dalle località più vicine di Villa, Tribbio e Valle di Montalto. A 23 anni, sposata con Basilio, si trasferì presso la famiglia acquisita che gestiva un antico mulino a palmenti. Il suocero Alfonso raccontava che il mulino era stato acquistato nel 1930 da Giulio Salvucci. Scorrendo in un canale lungo 158 metri le acque del Fiastrella alimentavano un bacino a caduta, più alto di 6 metri. L’acqua della cannella sbatteva su un asse di legno di quercia e faceva girare le pale e la macina. Partendo da Pian di Pieca, all’epoca lungo il corso del Fiastrella sorgeva una serie di mulini ad acqua. Uno dopo la casa di Costantini, poi questo Giansanti, seguivano quello di Salvo Salvucci e uno a Passo San Ginesio (già chiuso a suo tempo), poi quello di Rampichini a Madonna delle Macchie, quello di Francesco Franceschetti a Passo Ripe San Ginesio e l’ultimo a Urbisaglia. Nel 1953, oltre al suo, Delia ricorda attivi solo quelli di Salvucci e delle Macchie. In settembre-ottobre, quando le falde acquifere si asciugavano, l’acqua per macinare scarseggiava e ogni mulino aspettava che quello più a monte scaricasse l’acqua. Negli anni Cinquanta l’opificio aveva tanti clienti nelle vicinanze, og-gi è mosso da energia elettrica. Per mantenere l’alimentazione ad acqua occorreva costosa manodopera per la manutenzione del canale che si riempiva di melma e fango. È stato sempre un mulino dalla produzione limitata, circa 50 kg l’ora. I contadini portavano i loro cereali a macinare per il fabbisogno familiare e aspettavano in fila anche una giornata. Delia ricorda una massima ora caduta in disuso: “Chi arriva prima macina”; sull’argomento ricordo questa: “Ognuno porta l’acqua al suo mulino”. Nel 1970 il mulino fu ammodernato con il cambiamento della turbina ad acqua e le macine, tutto l’impianto marca Giannotti di Viterbo, fu preso a Loro Piceno; le macine sono francesi “La Fertè”. L’edificio, sede del mulino, risale al 1580, lo attesta una pietra sulla facciata principale.

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Probabilmente fu costruito con un prestito (enfideo) ottenuto dal Monte di Pietà di San Ginesio. Sotto la costruzione scorreva lo scarico dell’acqua, sopra c’era l’abitazione del mugnaio. Lo stabile non ha subito danni durante la guerra, né dall’ultimo terremoto; è stato ristrutturato nel 2013. Nel 1957 fu installato un mulino a cilindri per macinare in quantità più elevata per forni e privati, fino a 12.000 quintali l’anno. Rimase attivo fino al 2012, Basilio e Delia non riuscivano più reggere quel pesante carico di lavoro. Con quel nuovo sistema di molitura il grano era lavato, messo in tre camere oscure (cellette) dove restava per dodici ore e poi macinato. Con il lavaggio la qualità della farina era superiore, perché molti residui chimici andavano via. Oggi con la pulitura a secco mediante getto d’aria, cambia il colore. Attualmente in quel mulino a pietra si macinano grano, granturco e farro. La proprietaria esclama: “Il mais americano non lo do da mangiare neanche ai polli”; macina solo il granturco nostrano a otto file, anche di propria produzione. Le casalinghe di una volta stacciavano la farina in casa con un setaccio per polenta, oggi a richiesta dopo la macinatura, la farina gialla può essere setacciata da un macchinario elettrico mediante un rullo con seta per farine. La farina di granoturco, senza conservanti, si mantiene poco, al massimo 20-30 giorni in luogo fresco; se non ben conservata, al momento del consumo la polenta ha un sapore amaro. Posta subito in congelatore si conserva anche un anno. Antonietta, nuova proprietaria dell’antico mulino dalla scomparsa del padre, ci chiarisce altri aspetti sull’antica arte della macinazione. A pietra si macina tutto il chicco del cereale, invece nel mulino a cilindri le parti sono divise: crusca, cruschello, farinaccio e in ultimo, più raffinata, la farina di colore bianco. La donna è molto severa nel controllo dei cereali portati a macinare. Non accetta materiali con impurità, a esempio piccoli resti del tutolo (scartoccio) del mais possono mandare fuori uso l’asse della macina, ottenendo una farina scadente. Afferma: “Macinare prodotti non puliti è una mancanza di rispetto per il cliente successivo”.

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