Tratto da Macerata tra storia e storie
di Fernando Pallocchini
Il bombardamento di Macerata rivissuto per il ricordo di un bimbo, Giuseppe Federico Ghergo, che quel mattino venne svegliato all’improvviso dalla mamma, il tempo di saltare giù dal letto, vedere gli aerei che picchiavano e mitragliavano. La corsa affannosa, gli scoppi, il rifugio buio appena rischiarato da una torcia, centinaia di persone terrorizzate, alcune donne pregavano sommessamente, una madre piangeva il suo piccolo rimasto solo in altra parte della città. Poi tutto finì, quella madre riabbracciò il figlio coperto di polvere bianca ma vivo. Tutto iniziò il 31 gennaio 1944 quando un aereo, da 7.800 metri di altezza, fotografava Macerata e gli obiettivi sensibili. Poi il 3 aprile, giorno freddo con cielo coperto, alle 9:25 suonarono le sirene. La gente ci fece poco caso, abituata a falsi allarmi e fu un errore pagato caro. Un primo squadrone attaccò Prefettura e Casa del Fascio sganciando bombe e mitragliando; la seconda squadriglia fece subire identica sorte alla caserma Castelfidardo, a Palazzo Conti, al Distretto Militare e alla caserma Corridoni. Ultimi giunsero i bombardieri Baltimores sulle Casermette sganciandovi il loro carico micidiale e mancandole quasi completamente: solo tre bombe caddero dentro il recinto. Un obiettivo fu centrato dall’attacco, la caserma Castelfidardo, per il resto gli ordigni caddero in campagna e su via S. Maria della Porta, vicolo della Rota, piaggia della Torre, via Basily e, qui fu strage, in via della Nana dove lo scoppio investì i fuggitivi verso i campi oltre “lu puzzacciu” e coinvolse le donne che acquistavano il pane nel forno: 110 morti! Subito scattarono i soccorsi e si prodigarono cittadini, vigili del fuoco, militari, volontari dell’Unpa, sacerdoti, un fraticello, Salesiani che, liberatisi dall’impiccio della veste talare, lavorarono con una lena e un’abnegazione commoventi. La città subì altri due bombardamenti, il 2 e il 14 giugno, con altre vittime, fortunatamente in numero assai inferiore.
continua
foto di Cinzia Zanconi