di Matteo Ricucci
Dopo la doccia ritornarono nell’androne dove trovarono il furiere con le divise, una fila di barbieri con gli arnesi già pronti e con negli occhi la libidine di far giustizia di molte chiome belle e folte. Quando furono tutti in ordine si rifece vivo l’Istruttore che li rimise in riga per due e li guidò alla mensa. Era una vastissima sala, sulla cui parete di fondo c’erano tre grandi ritratti, al centro il Presidente della Repubblica, a destra quello del Ministro degli Interni, a sinistra quella del Comandante della Polizia. I tavoli erano apparecchiati con tovaglie fresche di bucato, posate nette, piatti brillanti. “Attenti!” tuonò improvvisamente la voce dell’Istruttore e da una porta laterale entrò il Colonnello Comandante della Scuola. Era un uomo di mezza età dal viso solcato da rughe profonde, con foltissime e nere sopracciglia che contrastavano con i capelli bianchi; tutto il suo atteggiamento esprimeva un’aria severa, distaccata ma di un buon padre di famiglia. “Riposo! – ordinò con voce calda – riposo, ragazzi! Sono qui per darvi il benvenuto. Ora voi fate parte di questa grande famiglia e vi garantisco che sarà fatto di tutto affinché non abbiate a pentirvi della vostra scelta. La vita qui sarà certamente molto diversa da quella finora trascorsa nelle vostre famiglie. Siatene certi, sarà nostra premura non farvela rimpiangere. Ci sarà molto da lavorare, ma mi auguro che ciascuno di voi senta l’impegno morale di superare ogni ostacolo per giungere al traguardo finale che, come ben sapete, è quello di guadagnarvi gli ambiti gradi di sottufficiali della Pubblica Sicurezza. Solo allora vi saranno affidati compiti e responsabilità che ognuno di voi , sono certissimo, assolverà con onore e onestà. Sappiate che lo Stato, di cui noi siamo gli umili e fedeli servitori, ha urgente bisogno di tutti noi. I tempi sono molto difficili! Il malessere di larghi strati della Società, sfruttato da mestatori politici di mestiere, crea continui disordini. Spetta a noi contenerli ed evitare che degenerino in sommossa aperta. Infine abituatevi sin da ora a considerare la criminalità organizzata come il braccio armato del terrorismo. Chi avrà ripensamenti o problemi d’adattamento, lo autorizzo sin d’ora a venire da me a espormeli, avrete, ve lo garantisco, tutta la mia paterna comprensione e attenzione. Garantisco sul mio onore che sarà ascoltato e aiutato. Chi non accetterà le nostre regole e la disciplina della scuola, chi avrà, per spiegarci meglio, mire e fini non idonei ai nostri scopi, sappia che la nostra giustizia sarà severa! Buon appetito”. E uscì seguito dagli ufficiali. “A buon intenditor poche parole! Se fossi in te, starei in guardia, qui non scherzano, a quanto pare”. Commentò Mario, fissando l’irrequieto Michele. “Già, sembra proprio così, ma io sono sicuro che il messaggio è per i mestatori politici di sinistra; è arcinoto che noi della destra siamo sempre stati un partito d’ordine”. – “Sarà come dici tu, ma io starei attento lo stesso, qui le bastonate non ti manderanno in ospedale, ma a Gaeta e non so se mi spiego”. Il menù fu vario e i piatti gustosi, gli animi si rasserenarono e presto la sala fu colma di voci allegre, da risate spontanee e dai commenti su personaggi e sull’ambiente appena conosciuti. Si fecero nuove conoscenze, ci si scambiarono sigarette e motti salaci, promesse d’andare insieme in libera uscita per scoprire le bellezze della città, incluse quelle del bel sesso. Poi venne la sera, la prima sera, lontano dalle famiglie. Il silenzio sapeva di pianto nascosto e pudico, di malinconia e di tentazioni di ritornare sui propri passi. Gran parte della nottata fu consumata nella vana e disperata ricerca di un po’ di sonno ristoratore, di un po’ di quiete spirituale. Di qua e di là il cigolio di qualche branda tradiva la nascosta ricerca di un po’ di autoerotismo. Mario aveva voglia di piangere, ma il timore che Michele potesse sentirlo, gli faceva premere la bocca sul cuscino: le immagini del padre e di Carmela, le uniche persone al mondo che gli stessero a cuore, gli danzavano davanti agli occhi come marionette mosse da un burattinaio pietoso. Egli riudiva le loro voci, ne apprezzava le inflessioni, il contenuto delle loro espressioni più tipiche. Vedeva la propria ragazza sola, in mezzo ad una piazza sterminata, che lentamente diventava sempre più piccola e alla fine scompariva nel nulla. Sentiva le risate di scherno dei compaesani che commentavano il loro abbraccio e il loro bacio, prima della partenza. E poi tutto sfumò nella nebbia di un sonno pesante e senza sogni. Il risveglio del mattino dopo fu brutale a causa del roco vocione dell’Istruttore che apparve loro come Caronte in riva allo Stige. “Sveglia, sveglia, cocchi di mamma, giù dalle brande, poltroni! Non aspettatevi l’ovetto stamattina. Correte a lavarvi e fra mezz’ora in punto vi voglio tutti pronti nel Campo di Marte che, per chi non ha confidenza con la mitologia, vuol dire il campo d’esercitazione”. Ci fu soltanto uno sbandamento sulla direzione da prendere per correre ai lavandini per lavarsi, le imprecazioni e i sospiri, ma alla fine riuscirono a presentarsi in tempo in mezzo al campo. “Basta guardarvi per scoprire quanto flaccidi e tremuli come mammole siano i vostri corpi, ma io, ve lo garantisco, vi forgerò come ferro il fabbro! Farò di voi degli atleti sempre pronti e scattanti e non venite a piangermi sulla spalla come bimbi spaventati. Non approvo lamenti, proteste od altre fesserie del genere. Non provate a marcare visite perché il nostro medico potrebbe propinarvi lassativi in dose da cavallo con le conseguenze che vi lascio intuire. È più conveniente soffrire di stanchezza cronica che di riposo eterno!”