Una lettera di Monaldo Leopardi perduta e ritrovata
trascritta e commentata da Matteo Ricucci
Molti anni fa, tra le cianfrusaglie di un rigattiere, scoprii un plico antico che conteneva due documenti: una lettera con numero 40, spedita da Roma il 7 Aprile 1829, dal Conte Monaldo Leopardi di Recanati e indirizzata alla Contessa Volumnia Compagnoni Roberti, abitante nella medesima città, e un secondo foglio, un atto notarile, stilato sempre nella medesima città, sul quale campeggiava la firma per esteso del medesimo patrizio. Non essendo epigrafista feci non poca fatica a decifrarne il contenuto:
lla signora Volumnia Compagnoni Roberti di Recanati, Roma 4 Aprile 1829.
Mia Contessa (Aia?)
Anche dalla lettera di mia moglie ho capito qualche cosa circa il suo incomodo poiché non volendo lesinare bugie non mi lesinava assolutamente di star bene. Non so dirvi quanto mi pesava di angustia ma spero ricevere oggi più buone nuove. Sto più quieto sentendo da voi che era libera di farlo e poi perché essa mi ha scritto di suo pugno piuttosto a lungo. Quanto al mio affare in R.(oma) lo lasciavo a Dio sa come perché in tutto il tempo della ammalattia non ho potuto mai lavorare, né fare visite di conoscenza e sono stati finor 54 giorni totalmente perduti. Ma si è fatta la volontà di Dio! Aggiungete poi che in questi ultimi giorni piove sempre e non posso profittare di questo tempo in cui la salute migliorata mi permetterebbe di fare qualcosa. Ieri matina, previo uno scampolo senz’ acqua, andai dalla Contessa e ci stetti due ore. La Contessa sta bene e vi saluta. Gli portai quanto in quel momento avevami recato per essa il vetturale: mandolino di sua commissione. Non ho veduto né Ricci, né Solari e non sapevo della loro venuta, non li cercherò se non mi cercano. Non pensate al caffè di qua: il più inferiore costa baiocchi 10 alla libra e non è gran cosa. Domani seguirà in San Pietro la incoronazione del Papa, io non la vedrò. Il Papa ha risoluto di abitare in San Pietro e solo nella (e)state al Quirinale, come fece Pio VI, va bene? Si dice che voglia cambiare il tesoriere Mattei, mandando il Nunzio a Firenze in luogo di Carlinzii, anche altre cose si dicono, ma tutte voci. Desidero di sentire guarita la mia sorella e se voi dovete cavarvi sangue in assoluto, bisogna dirvi che non tardiate. Addio, salutate tutti e abbiatevi riguardo. Lo zio sta bene, io sono mesto ed angustiato sino all’arrivo delle ziette e c. Addio. Il vostro affezionatissimo (babbo ?). M.L.
P.S.
Ricevo la lettera: quanto mi dite di mia moglie mi consola in parte, ma non mi calma ancora del tutto. Vi sono obbligato per le vostre notizie e vi prego di continuarle, ma questo suo male mi ha contristato assai. Né lei, né Paolina mi parlavano di salute affatto, sicché dalle sole lettere loro ho capito che mia moglie non sta bene. Non scrivo ad esse in questo tempo e potete dire che non ho scritto anche a voi. Io non vi ho nominato. Sono poi persuaso che mia moglie gradisca sinceramente la vostra visita o visite. Sono ancora persuaso che siale piaciuta la lettera da me inviata a Paolina intorno alla sua antica amicizia con la Mazzagalli, ma questa lettera la scrissi spontaneamente affatto e mia moglie non me la suggerì in nessun modo. Almeno che io lo abbia capito. Paolina mi ha risposto come potevo desiderare da una figlia amorosa e saggia… la mia consolazione. Può essere che approfitti della licenza che mi date intorno alla parrocchia ma può essere ancora che io la mandi alla contessa intieramente. Vediamo. Spero di riportarvi intatti li scudi 90 di cui mi parla la vostra raffinata amicizia, ma in ogni modo non mi dispiacerebbe viaggiare accompagnato da questo peso. Quantunque abbia qui speso molto esageratamente per questa lunga ammalattia, mi sono regolato di non restare al verde. Tuttavia l’occasione fa il ladro e potrebbe darsi che per non riportare tanto peso, allargassi un poco la briglia. Se mai la colpa sarebbe la via e voi poi ne portereste un poco la pena.
Addio, Addio!
Io scrissi la nuova del nuovo Papa mentre sparava castello e impostai la lettera alle 19 e un quarto. Gli ufficiali della Posta dissero che era in tempo, ma poi non mandarono la mia lettera.
La copia dall’originale della lettera
Il commento
La lettera, perduta e ritrovata, è stata scritta dal Conte Monaldo Leopardi. Chi ne conosce la storia personale sa che egli era uomo sedentario, schivo di viaggi turistici, amante della città di Recanati, della sua lussuosa villa e della sua biblioteca, ricca di libri importanti di ogni epoca e di ogni autore, degni della sua e della curiosità di tutti i suoi figli. Nelle sue memorie si hanno scarse notizie intorno ai suoi pochi viaggi, il primo fu a Roma, dove egli si recò nel 1801 in compagnia del fratello minore che smaniava di combattere nell’esercito del Santo Padre; un secondo a Pesaro in visita ai nonni ivi residenti; il terzo nella colta Bologna per un progetto di fidanzamento con un’illustre dama dell’aristocrazia felsinea, Diana Zambeccari, per la quale bruciò quasi del tutto il suo patrimonio, donandole costosissimi gioielli, abiti preziosi, eleganti carrozze, cavalli focosi fino a quando, disilluso, Monaldo si ritirò dall’affare senza plausibili giustificazioni. Per tacitare le rimostranze del mancato suocero, dovette dar fondo ai suoi averi. Il giovane Conte era fatto così: pronto a prender fuoco per gli occhi splendenti di una bella fanciulla e altrettanto pronto per l’abbandono, a causa di un’intervenuta resipiscenza. Di quel suo ultimo viaggio, nell’anno 1828, nella caotica e malsana città di Roma che egli descrive con prosa scarna e confidenziale, nell’enciclopedica storia della sua famiglia, annota soprattutto una lunga malattia febbrile, tacendo al contrario ogni riferimento alle vere ragioni del processo in cui era stato coinvolto. Nel territorio ubertoso e incantevole della ricca città di Recanati di nobili, più o meno dotati di soldi e di titoli, ce n’erano parecchi e la maggior parte del loro tempo era impiegata in noiosissime e ostinate diatribe per stabilire, con la medesima puntigliosa ostinazione d’un orafo, i propri quarti di nobiltà a danno di chiunque avesse l’ardire di ritenersene più dotato. Erano scontri che duravano da secoli e coinvolgevano parecchie generazioni. In uno di tali processi il Conte Leopardi fu trascinato dal Conte Michele Moroni: evento questo che turbava i sogni dell’intera famiglia. È necessario a questo punto coinvolgere il divino Giacomo “suo figlio” che in una lettera indirizzata all’Uditore della Sacra Rota in Roma: Carlo Emanuele Muzzarelli datata Firenze, 28 giugno 1828 così dice:
“ECCELLENZA REVERENDISSIMA. LA MIA FAMIGLIA SAPENDO CHE V.S. ECC. REVEREND. MI HA ONORATO MOLTE VOLTE DI MOLTI SEGNI DI BENEVOLENZA, HA DESIDERATO CHE IO RACCOMANDASSI A LEI LA CAUSA CHE MIO PADRE, MONALDO LEOPARDI, HA CON IL CONTE MICHELE MORONI E CHE DEE PROPORSI A CODESTO TRIBUNALE DELLA ROTA…”
Alla pag. 407 del libro di Rolando Damiani, intitolato “La vita di G. Leopardi” si evince quanto segue:
“In quel momento G. Leopardi era impegnato in un’azione di riavvicinamento psicologico verso la sua famiglia, cui doveva ritornare. Si era rivolto a Monsig. Muzzarelli, UDITORE DELLA SACRA ROTA, perché appoggiasse il padre in una causa con il Conte Michele Moroni, dalla quale il patrimonio familiare poteva risultare distrutto.
A pag. 418 della medesima opera:
“…moriva intanto a Roma Papa Leone XIII (1829). A quell’evento intanto Giacomo non avrebbe quasi prestato attenzione, se suo padre non si fosse trovato nella capitale alla fine del dicembre 1828, per seguire la sua causa. Il lungo conclave doveva concludersi il 31 marzo 1829 con l’imprevista elezione a Papa di Pio VIII, al secolo Cardinal Castiglioni, nativo di un paese vicino Recanati e conoscente dei Leopardi”.
Ecco chiariti i veri motivi del viaggio di Monaldo a Roma in una stagione inclemente, fredda e umida, che come egli stesso confida nella lettera perduta e ritrovata, alla sua amica Contessa Volumnia Compagnoni Roberti, di essere stato immobilizzato a letto per quasi due mesi a causa di febbri ricorrenti. Egli non dice palesemente di aver vinto la causa, ma ciò si può arguirlo dal suo tono quasi allegro e dalla nostra considerazione che la raccomandazione del figlio all’Uditore della Sacra Rota e la conoscenza del nuovo Papa, amico di famiglia, hanno concesso all’esimio Conte un po’ di tranquillità. Il contenuto di questa lettera è vario e interessante sia dal punto di vista della famiglia Leopardi e di molti suoi parenti, sia dal punto di vista storico per l’elezione del nuovo Papa Pio VIII, sia per il taglio ironico con cui descrive i suoi rapporti con la moglie e con la figlia e con tutti gli amici nobili marchigiani che si trovano nell’Urbe. Salta agli occhi il fatto che egli non fa alcun accenno ai suoi quattro figli: il transumante divino Giacomo, l’innamorato contestato Carlo, il bello della famiglia, né del povero Luigi deceduto soltanto nel maggio 1828 per tisi a 20 anni, né tanto meno del giovanissimo Pierfrancesco che cadrà vittima della ragnatela degli obblighi familiari d’un giovane cadetto di un illustre casato. La lettera perduta e ritrovata è un messaggio che viene da lontano e ci parla di persone che non ci sono più, di fatti che hanno segnato tortuosi percorsi in questo mondo, i loro successi e le loro sconfitte, le poche gioie e i tanti dolori che hanno scavato in cuori palpitanti ferite mai rimarginate, emorragie mai spente, sangue mai coagulato. L’autore, padre di figli maschi, amati e perduti, per incompatibilità di caratteri, per malattie mortali, per sogni diversi e difformi che hanno tracciato sentieri antitetici e mete mai raggiunte, un padre che, in uno sfogo con l’amica del cuore, si dimentica di loro e loda e ricorda soltanto la sua unica figlia, angelo del focolare domestico, quel padre dovrebbe chiedersi se è stato giusto e caritatevole nei loro confronti.
Egli, marito che non conosce i malesseri della propria sposa, avverte l’amica di non dirle nulla della loro corrispondenza, segreto che sbandiera la propria esistenza con vessilli colorati, vento di passioni che strugge e strappa gli affetti come foglie d’autunno, prede del gelo. Parla del mandolino della zia contessa come farmaco del dolce far niente; dei nobili amici Ricci e Solari, tanto amici “che se non vengono da me io non vado da loro!”, strana amicizia d’un tempo in cui i sentimenti erano fiori da esporre sull’asola d’una giacca. L’intronizzazione d’un nuovo Papa non ha importanza e ancor meno i suoi nunzi e i suoi prelati, cerimonia annunziata da un colpo di cannone di Castel Sant’Angelo, foriero di tragici eventi segnati nel libro della Storia. Egli ha vinto la sua causa e di ciò va fiero, val più di giorni 54 di “ammalattia” e del caffè di Roma che alla libra dieci baiocchi costa, poco gli preme. Ma di Luigi, “homo faber” della famiglia che la palla con il bracciale tra le stelle ha inseguito, perché non parli? e di Carlo che urla ai quattro venti che: “al cor non si comanda!” al tuo ritorno ha già impalmato la sua Paolina. E di Giacomo, il divino Giacomo, anima assetata d’infinito che dall’irto poggio i Monti Azzurri mira, non ti sovviene scrivendo la tua lettera? Pier Francesco, il più giovane della nidiata, che mentalmente già dialoga con l’anima sua gemella, nelle patrie galere scoprirà che sfidare la paterna autorità non gli conviene. Alla fine di questo mio faticoso viaggio in compagnia di questa lettera perduta e ritrovata nella mente un dubbio mi sorge: non era forse meglio che essa avesse continuato ad essere perduta e mai più ritrovata?