di Modestino Cacciurri
Nel prossimo ottobre ricorrerà l’anniversario della morte di Filippo Corridoni, personaggio tanto famoso in vita quanto poco conosciuto attualmente. Prima una appropriazione indebita da parte di Mussolini, quindi nel dopo-guerra una damnatio memoriae. Si è detto tanto della sua vita e attività sindacale, ma ci interessa riflettere sull’interventismo e sui suoi ultimi mesi di vita in trincea. Bisogna precisare che Corridoni era un antimilitarista, non un pacifista, e non perdeva occasione di predicare contro la guerra e incitare alla diserzione: riteneva infatti che il proletariato, categoria sopranazionale, avesse solo da perdere nei conflitti. Quindi l’analisi sui motivi che lo spinsero a propugnare così fortemente l’interventismo a fianco dell’Intesa, non possono essere liquidati con le solite risposte: Imperi Centrali simbolo dell’oscurantismo e della reazione, tradimento dei proletari tedeschi e austriaci, irredentismo, e progressi del proletariato nella vittoria. Corridoni era un giovane (morì a 28 anni) molto intelligente e sensibile, dotato di notevole capacità politiche e di una onestà morale unica: un incorruttibile. Pertanto escludendo subito il fatto che sia stato comprato dai servizi francesi, perché ha trascinato in un’avventura tragicamente disastrosa un’intera nazione e in primo luogo la sua tanto amata classe operaia facendo oltretutto il gioco del Re, militari e capitalisti, proprio di quei personaggi che odiava maggiormente? Il salto interventista è molto forte e avviene tra giugno e settembre del ‘14. La visita in Francia del gennaio del ‘15 per trattare con la società del gas di Milano è molto importante; addirittura il Ministro del Lavoro francese interviene direttamente a mediare, secondo noi, per ingraziarsi Corridoni e stimolarlo sulla necessità del sostegno italiano alla giusta causa dell’Intesa. Non serve sottolineare che la neutralità dell’Italia, o addirittura l’entrata in guerra al fianco della Triplice Alleanza, avrebbe portato quasi sicuramente alla sconfitta franco-inglese prima ancora dell’entrata in guerra degli Stati Uniti (6/4/1917). Possibile che Corridoni non abbia capito in quale disastro stava trascinando la nazione e i suoi operai? Possibile che credesse come molti che la guerra sarebbe durata solo pochi mesi? Possibile che si fidasse così ciecamente della Francia e dell’Inghilterra? Possibile che ritenesse qualche milione di morti un prezzo necessario per la causa? Era certo che una vittoria avrebbe portato alla repubblica? Solo su questa domanda abbiamo una risposta sicura: la vittoria portò al Fascismo. Del resto tutto era stato deciso il 26 aprile del ‘15 con la firma del segreto Patto di Londra e Corridoni in fondo, con la sua verve interventista mobilitò le piazze proprio a favore di chi aveva sempre odiato: Re, militari e capitalisti guerrafondai! Aggiungo una ipotesi, pensava che la guerra potesse far esplodere una rivoluzione come in Russia? Comunque, secondo noi, per trovare la risposta alle tante domande bisogna cercare di analizzare il suo comportamento nei pochi mesi di guerra. Ritengo che Corridoni si sia reso ben presto conto in quale tragedia assurda avesse trascinato l’Italia, che forse la guerra non valesse la “causa”, e ancora peggio, che tutto si facesse men che gli interessi del proletariato. La sua onestà morale però non poteva rinnegare la sua lotta interventista, sarebbe stato assurdo e insensato dichiarare di essersi sbagliato, e allora non gli restò altro se non, come un antico eroe greco, immolare la sua vita come testimonianza del suo credo. Le sue innumerevoli missioni temerarie al limite dell’impossibile dimostrano secondo me che Corridoni conscio della sua responsabilità nella guerra, volle cercare volutamente la morte per dimostrare la sua onestà intellettuale e dare la vita per una causa che forse non sentiva più sua. E ancor più drammaticamente non poteva confessare questo a nessuno, né a parole, né nelle lettere, rendendo ancora maggiore e insopportabile il suo dramma. Vi sembra ragionevole che un uomo già convalescente per una flemmone, quasi scappando dall’ospedale, vada all’assalto in piedi, a fronte alta, senza abbassarsi, agitando il cappello e cantando l’Inno di Oberdan? Questo non è coraggio e se scartiamo la pazzia, è solo andare incontro alla morte! Preferiamo ricordarlo così, come un giovane con il suo dramma, con il suo dolore, che ha dato la vita per i suoi ideali che forse sentiva scricchiolare, ma stoicamente ha voluto testimoniare a tutti la sua onestà intellettuale.