Tratto da Macerata tra storia e storie
di Fernando Pallocchini
Il vicolo compare verso la metà del 1400, inserito nel “borgo San Salvatore”, come spazio divisorio tra il convento fiancheggiante la chiesa che dà il nome al borgo e due grossi agglomerati edilizi. La zona è difesa da un muraglione che guarda la valle del Potenza ma è sguarnita dalla parte opposta e solo nel 1524 la fortificazione viene completata. Da una mappa del 1661 il vicolo gira, dopo l’Ospizio di Sant’Agostino (palazzo Standa), intorno a un gruppo di case che in seguito diventerà il Palazzo Torri.Fu così che intorno al 1746 una parte della stradina divenne un passaggio stabile e, nell’uso popolare, fu detta il “Vicolo di Torri”. Solo nel 1931 assunse l’attuale denominazione in onore di Donna Vincenza Santafiora, ultima erede della famiglia Torri. Quindi il vicolo Santafiora è una angusta stradina di poche decine di metri, poco frequentata, che collega via Garibaldi dalle parti dell’emiciclo Torri con viale Leopardi. In pratica fiancheggia un lato di quel Palazzo Torri che Fernandez Velasco, duca di Friaz, ereditò dalla contessa Santafiora con alcuni terreni siti nella località di Colle Torri
(compresa la chiesina arroccata in cima al colle), oggi detta Collevario. Il palazzo aveva uno scantinato di vaste dimensioni, reso suggestivo da un insieme di volte reali, che negli anni ‘50 era inutilizzato. Il fattore Duilio Angeletti, amministratore delle sostanze maceratesi del duca di Friaz, domandò e ottenne dal duca il permesso di utilizzare quegli spazi in modo da farci un’attrezzata cantina. C’era perfino un torchio alto due metri! Il fattore vinificava la parte padronale della vendemmia (d’altronde Fernandez Velasco, che abitava in Spagna, non è che l’uva se la potesse portare via… ) usando un metodo tradizionalissimo: spremuta di uva e fermentazione naturale. Il vino che ne derivava era di eccellente qualità e c’erano gigantesche botti di un verdicchio raffinato e altre di un rosso, corposo sangiovese. Quasi per gioco si preparava anche una piccola botte di vino ottenuto dalla spremitura di uva fragola (detta anche “cimiciara”), un nettare dal colore intenso, profumo e sapore particolarissimi. I vini venivano venduti spillandoli direttamente dalle botti nelle damigiane. Non tutti. Una buona parte se ne andava… gratis! Infatti una fornitura era richiesta dal vescovato… per la Messa di Pasqua (quanto vino poteva servire per le messe pasquali?); un’altra era per la prefettura… e serviva per i pranzi ufficiali (quanti pranzi ufficiali si facevano?) anche se, a onor del vero, il Prefetto ci teneva a offrire agli ospiti vini locali e genuini; un altro po’ era per i Vigili Urbani… la Befana dei Vigili, quando ancora ci usava questa tradizione. Poi, per raggiunti limiti di età del fattore, la cantina venne dismessa e i locali passarono a Canovari che ci impiantò il Club Santafiora. Questo offriva ai soci sale da gioco, sala con biliardo e sale da ballo e per simbolo aveva una farfalla. C’era da lanciare il nuovo locale e “Cisirino”, che iniziava a farsi conoscere come “movimentatore”, ne pensò una delle sue. Si realizzarono 300 farfalle di polistirolo grandi 1 metro per 50 cm che furono appese a tutti i lampioni della città in modo che si vedessero anche di notte (erano farfalle non… lucciole!). Quindi, con lo stesso materiale e alte un metro, si fecero tante lettere quante ne occorrevano per formare la scritta “Santafiora apre il ecc.” e si gonfiarono con il gas 400 palloncini colorati che, grazie a 4 tiranti di robusto nylon ancorati allo Sferisterio, innalzarono quella scritta a 150 metri di altezza sopra l’arena cittadina. Un effetto strepitoso! Stettero lì per 2 giorni e 2 notti finché non giunse alla questura un messaggio urgente dall’aeroporto di Falconara: “Che accidenti combinate a Macerata?! Smontate subito tutto quell’accrocco perché ci disturba le operazioni di volo!” Fu smontato, anche perché i palloncini si stavano sgonfiando… Poi i sotterranei cambiarono fisionomia trasformandosi nel Tartaruga.
continua
Foto di Cinzia Zanconi