di Medardo Arduino
Oggi una simile frase può sembrare assurda, senza senso, le lingue nazionali si sono così consolidate e toccano la totalità della popolazione che tutti sanno che per ottenere un certo suono devono combinare le lettere dell’alfabeto in un modo preciso, chiesa e non ciesa, colore e non cholore ecc. quindi tutti in genere sono in grado di passare dalla lingua parlata a quella scritta con la semplice conoscenza mnemonica o consapevole delle “regole di pronuncia”. Siamo pure propensi, nell’usare la nostra bellissima lingua, quella del Bel Paese dove il dolce sì suona, a infarcirla di barbarismi cioè parole importate da altri idiomi che godono posizioni di preminenza politico-economica, divenuti d’uso corrente: location ha sostituito luogo o posto e tante altre, importate dalla lingua estera più diffusa. L’evoluzione delle lingue vive è costante ed è legata ai fattori che generano frequentazioni e preminenze economico-politiche fra popolazioni di bacini linguistico territoriali differenti. La parola e lo scritto, sono il mezzo preminente di comunicazione fra gli umani, e hanno senso compiuto solo quando la capacità di comunicazione, ovvero di essere compresi da altri con questi mezzi, supera i confini locali della famiglia o del clan. Le lingue sono come le correnti nell’aria o marine: si producono per specifiche concause in un certo bacino e poi “viaggiano” per ampi percorsi mantenendo le caratteristiche specifiche che si mescolano con quelle vicine solo ai bordi: per i fluidi sono la temperatura e la densità, per le lingue i bacini economici degli scambi commerciali o del prelievo fiscale del dominatore. (Cfr. “le mezze lingue” su La rucola n° 178 marzo 2013). Tempo addietro, prima dei mass media, coesistevano dappertutto due tipi di comunicazione orale: il dialetto “locale” e la lingua “nazionale” e fra dialetti e lingua e fra lingua e lingua il motore della espansione linguistica è sempre stato quello economico, con una piccola regola invariante e sottaciuta: chi compra (o chi pretende un prelievo fiscale) lo fa nella propria lingua perciò la impone. Veniamo al nocciolo della questione: il lungo preambolo per introdurre l’argomento della nascita delle lingue “volgari” giusto a metà del medioevo. Perché si formano le lingue locali o nazionali proprio in quel periodo? La questione è mal posta, in effetti in quel pe-riodo nascono solo le scritture delle lingue dialettali che sono parlate da sempre: perché riemergono in quel periodo ovvero il XI-XIII sec. e non prima e non dopo? Quale è l’evento scatenante di questo fenomeno nuovo? La nascita delle principali scritture delle lingue popolari ovvero “volgari” che saranno poi pressappoco le lingue nazionali europee, è toccata di striscio dalla storia e non è stata, a mio avviso, sufficientemente collegata dagli studiosi della lingua e della letteratura ai feno-meni storico sociali, soprattutto al più traumatico di questi: lo sfaldamento del Sacro Romano Impero di Carlomagno. Questa faccia del poliedro della storia medievale, soffre anch’essa della “parcellizzazione” degli studi in ristretti confini locali che hanno permesso la formazione delle distorsioni dei fenomeni politico sociali e della “rilocalizzazione” coatta dei principali eventi della storia trasferiti dall’Italia all’Europa continentale. La lingua è l’espressione principe dell’etnia o classe sociale o popolo posto in posizione dominante. Hanno un bel dire che il latino era la lingua della cultura e per i germanici Franchi faceva figo farlo scrivere dai chierici magari senza nemmeno capirlo, certamente senza parlarlo, così dicono gli storici: a questa assurdità proprio non ci ho mai creduto, avendo da sempre nella mia professione di ricercatore scientifico in fisica, utilizzato il metodo comparativo, quello che propose Marc Bloc anche per le discipline storiche e che applico a questo fenomeno. Cfr. “PER UNA STORIA COMPARATA DELLE SOCIETÀ EUROPEE- in Lavoro e tecnica nel Medioevo-Laterza Bari – ed.2004” l’autore propone questo metodo derivato dalle discipline scientifiche agli storici del secolo scorso per superare il ristretto angolo di visuale degli studi locali e superare “un dialogo fra sordi, nel quale ognuno risponde a sproposito alle domande dell’altro” (pagg 70-71) Sappiamo tutti che con l’impero di Roma si diffuse nel mondo conosciuto, al di sopra delle lingue locali la lingua del potere politico ed economico di Roma stessa, (salvo in quei bacini dove opportunità commerciale suggerì di farla convivere con quella della marina mercantile, da tempo diffusa in tutti i porti cioè il Greco). Allo sfaldamento del potere di Roma si sostituì progressivamente, a partire dall’ Italia centrale, il potere dei Franchi e quindi continuò a essere “ufficiale” la loro lingua madre cioè, secondo la mia ipotesi, sempre quel latino parlato nei mercati nell’Italia centro settentrionale, chiaramente in una forma leggermente più “popolare” di quello delle grandi menti dell’età imperiale romana. Immaginate per quel periodo (il metodo comparato lo suggerisce) la stessa situazione odierna dell’Inglese lingua del potere economico nel mondo (forse non più per molto) e per questo anche lingua ufficiale dell’Europa Comunitaria: tutto ciò che è ufficiale e internazionale oggi si scrive in Inglese e nel Sacro Romano Impero si scriveva in Latino. Nello stesso secolo in cui muore Carlomagno, muore, per lo spostamento e per il frazionamento del potere imperiale nei tre regni dei nipotastri Carlo, Lotario e Ludwig, l’imposizione del latino per i documenti scritti e inizia il relativamente lento trasferimento della documentazione scritta dal latino alle lingue popolari. Le lingue parlate sono usate anche e soprattutto nella forma scritta sia per comunicare che per tramandare atti e cronache tanto all’interno dei nascenti nuovi stati nazionali quanto nei nuovi bacini commerciali delle grandi Signorie che agiscono come polo centripeto dell’economia a scala sovra regionale espandendo il loro dialetto. Il fenomeno tocca anche lo stato Pontificio e i luoghi del Cattolicesimo, che continueranno a mantenere solo nelle pratiche cultuali la lingua madre del Papa romano. Siamo alla fine di questo scritto e all’inizio del nuovo corso della storia: sul territorio non c’è più il funzionario delegato imperiale e neppure il conte che pretendono il latino: il ricco mercante o il latifondista (gli “arrivati” della nuova economia che parlano la lingua locale), non vogliono più saperne di siglare con la croce il contratto o l’atto notorio scritto in quel latino che non è loro e capiscono poco, impongono perciò al notaio “scrivi come parli almeno quando lo leggi lo capisco bene anch’io, visto che i soldi sono miei…” Perciò lentamente ma inesorabilmente da “sao ko kelle terre por kelle fini…” in più o meno in tre secoli, siamo arrivati alla Divina Commedia di Dante Alighieri e al dolce stil novo. Un altro esempio perfettamente coerente alla questione è il cosiddetto “giuramento di Strasburgo” annotato da Nitardo: è il testo bilingue, in roman cioè la lingua dei Franchi Salici e in alto germanico lingua dei Sassoni e Svevi, che i cobelligeranti Carlo il calvo e Ludwig il germanico pronunciano, ciascuno nella lingua delle truppe dell’altro, appunto perché lingue popolari dei due eserciti di diversa etnia, i Franchi e i Germanici, affinché capiscano i termini del giuramento, liberati dal vincolo della lingua ufficiale, il “latino” imperiale.