di Fernando Pallocchini
Walter Filoni, classe 1926, ne ha da raccontare sulla vita delle Casette e dintorni di una volta. Da bambino abitava verso la metà di corso Cairoli, in un appartamento di tal Ciaùscolo, ambulate di “pezze” (tessuti). Era al terzo piano di una casa di quattro piani e il suo vicinato era tal Gabriè (Machella), un fabbro i cui figli ne hanno continuato l’attività. All’epoca là le Casette ci stavano molti artigiani e Walter ricorda il sarto Mischju, il ciabattino Borgiani, detto Mappó per via del grosso naso, Ughére, altro calzolaio, Montoru il fabbricante di birocci, Lola la viniricola (fruttivendola), Nicolina che vendeva il carbone ed era la mamma di Batoccu. Ricorda anche la Cantina de Velà, nei pressi dell’ospedale, dove un 18 BL, camion dalle ruote piene e dalla trasmissione a catena, passava a caricare gli avventori per portarli alle terme dell’Aspio, per cui prima facevano il pieno di vino, poi di acqua! Particolarità dei passeggeri: tutti partivano con un giornale sotto il braccio… la carta igienica era un lusso. Di fronte a lui abitava Saracco, un idealista, socialista, una persona tranquilla; all’alba una squadraccia di fascisti vestiti di nero, formata da 4 o 5 persone, arrivava cantando “Botte, botte si daran… sempre botte si daran…”, uno di questi aveva con sé una fiaschetta. Costoro si fermavano sotto la casa di Saracco, lo prelevavano, lo mettevano seduto su una sedia e gli facevano ingurgitare olio di ricino. Era un buon uomo e faceva pena a tutti e, siccome l’azione si ripeteva nel tempo, era come se il poveraccio fosse agli arresti domiciliari: per via della purga era sempre in bagno! Non potendosi ribellare che fece? Chiamò uno dei 4 figli… Ribelle! Fu una minima soddisfazione… I primi marciapiedi di corso Cairoli furono realizzati nel 1930; Walter aveva 4 anni e andava a giocare in strada (le auto erano rarissime) dove gli operai avevano sistemato mucchi di piastrelle rosse, ne fu affascinato tanto da prenderne due e portarsele a casa: le strofinava ascoltandone il “tra… tra… tra…” come fosse un gioco (i giocattoli erano pressoché inesistenti data la povertà della sua famiglia). Al rumore accorse la mamma: “Dove le hai prese?” tirandolo per un orecchio lo portò di sotto: “Rimettile al loro posto!” Poi a furia di sculacciate lo riportò in casa dicendo: “Ricorda, non si tocca niente di nessuno!” Walter rammenta: fece le scale tre per volta! Ma fu una bella lezione di vita perché sua madre, il giorno dopo, gli raccontò di un bambino che, come lui, prese un gomitolo da un canestro e lo portò a casa; la mamma gli domandò dove lo aveva preso e il bimbo precisò che con il gomitolo c’era anche un ago. Quella donna lo rimproverò dicendo: “Hai preso solo questo?” in pratica incitandolo a rubare. Questo continuò a rubacchiare e finì che fu condannato a morte. Come ultimo desiderio chiese di vedere la madre alla quale disse: “Quel giorno avresti dovuto dirmi di non toccare niente a nessuno”. Walter ascoltò attento e la sua mamma lo abbracciò, gli fece una carezza e gli diede un bacio. E lui durante la sua vita ha ricordato sempre e ancora ricorda con gli occhi umidi di commozione… In seconda elementare ebbe un altro… contatto fisico, questa volta con la maestra Pacetti, una donna piccolina, che aveva dato agli alunni una poesia da imparare a memoria. Il primo a essere chiamato fu Walter, che non aveva studiato… gli arrivò uno schiaffo secco sulla faccia! Fu il primo e anche l’ultimo della sua vita. Imparò anche la poesia: Gigi cerca il suo berretto / dove mai l’avrà ficcato? / Nei cantucci sotto il letto / va a frugar tutto affannato. / Cerca, sbuffa, smania, pesta / e poi vede che l’ha in testa! …e non l’ha dimenticata più! In zona Casette un punto focale era il Caffè de lu Ricciu. Sesto Benedetti, di buon ora, prima apriva il bar poi la sua bottega di fabbro sotto lo Sferisterio; a lui subentrava il fratello, anche lui con i capelli ricci da cui il soprannome. Frequentatore giornaliero era Speranza, direttore dell’ufficio postale di piazza Mazzini. Un giorno lu Ricciu gli stese una mano con un dito teso dicendo: “Tirami il dito… tirami il dito!” Speranza, credendo avesse un qualche dolore, tirò… tirò più forte e lu Ricciu sganciò una sonora, lunga e puzzolente scoreggia. L’altro rimase senza parole. Per il puzzo micidiale vennero aperte le porte e il direttore si dileguò nella nebbia. Non tornò più. Salace il commento di Borgani: “Non s’è offesu… ci-ha avuto solo paura de murì ‘sfissiatu!”.
(continua…)