Tratto da Macerata tra storia e storie
di Fernando Pallocchini
In fondo alla piaggia della Torre troviamo uno dei vicoli più caratteristici della città, che segue lo sviluppo urbano a “sfoja de cipolla”. Vi raccontiamo di vicolo Cassini anche attraverso le storie narrate dai vecchi residenti.
Vicolo Cassini non è tra le parti più antiche edificate a Macerata, infatti alla fine del 1300 non ve n’è traccia, al suo posto uno scoscendimento sotto la cinta muraria. E’ solo poco prima della metà del 1400 che Francesco Sforza allarga le fortificazioni atte a contenere una Macerata in crescita e in queste è incluso il nostro vicolo, che inizia vicino alla chiesa di S.Antonio e si sviluppa a ridosso delle costruzioni di via Padre Matteo Ricci, alte perché realizzate sul vecchio muro di cinta. Si ottiene così un pittoresco contrasto essendo le case del vicolo basse, piccine e disposte in unica fila. Perché tale risultato architettonico? Originariamente, in quella zona ricca di acque e prossima al mercato (piazza Mercato poi Mazzini) c’erano tutti orti per cui fu necessario edificare casupole onde riporre gli attrezzi e le verdure da rivendere il giorno dopo. La richiesta di abitazioni fece consolidare queste che, forse, prima erano costruite in malta e paglia, i tipici “atterrati” diffusi nel maceratese. Il vicolo non ebbe un nome fino al 1700, quando si insediò nella superiore via Padre Matteo Ricci, al n° 1, la nobile famiglia dei Cassini. Pur inglobato nel tessuto cittadino ha avuto una vita tutta sua, una nicchia sociale scandita dai ritmi propri del ceto dei residenti e dalla sua conformazione. Allungato, di una linearità senza intersezioni e curve, limitato da un lato dagli alti palazzi, incombenti e protettivi, di via Padre Matteo Ricci; dall’alto veniva inondato dal sole da sopra i bassi tetti delle casupole, tanto bassi da essere “toccati con mano”. Alle estremità del vicolo una entrata e una uscita permettevano un controllo totale della vita al suo interno, quasi due dogane.
Tutto ciò ha regalato intimità, quindi lo scorrere di vite gioiose e serene in sicurezza. Sfogliando i ricordi di alcuni residenti abbiamo assaporato una atmosfera familiare, ormai e purtroppo, scomparsa, che risale agli anni ‘60/‘70. La giornata iniziava con i rumori della sottostante via Crispi dove c’erano il marmista, il falegname, il ciabattino, la lavanderia che portava i panni a stirare nel vicolo, continuava con il profumo invadente delle “sargicce” di Speranza e con lo sfaccendìo delle massaie. Nel pomeriggio le donne sedevano fuori dalle case, ognuna con la sua sedia, circondate da uno sciame di ragazzini, e si spostavano insieme con il sole da un lato all’altro della via seguendo l’ombra. Era una scuola di vita, ognuna trasmetteva alle bambine la propria “scienza”: Lina, l’arte della camiciaia; Rosa quella dell’uncinetto e del lavoro a maglia; altre, più anziane, erano esperte in calze e nel rammendo. Tutte sapevano di cucina, e volavano le ricette de “lu ciammellottu”, de “le sfrappe”, de “la pulenda” e c’era il giro degli assaggi. Ci si chiamava da finestra a finestra e non mancava Adolfa che, all’occorrenza, faceva le iniezioni. A sera rientravano i mariti, spesso “calcinati” muratori. Dopo cena la vita del vicolo riprendeva fremente, si giocava a carte, si parlava di streghe e di terremoti, gli occhi dei piccoli sbarrati e timorosi. Questo fino all’arrivo del primo televisore da Lina, che spalancava la porta di casa e faceva partecipe “tuttu lu vicinatu”. Una cena svelta, ognuno si portava la sedia (o la sdraio), da casa e prendeva posto, sul vicolo, di fronte alla porta di Lina. Si formava “la spiaggetta”. Oggi il vicolo Cassini ha caratteristiche sociali diverse. I nuclei familiari originari si possono contare sulle dita di una mano, le piccole case sono abitate da studenti universitari e dalla etnia multiforme degli extracomunitari. Una situazione che ha fatto svanire le vecchie consuetudini importando nel vicolo una diversità di abitudini, di usi e di problematiche.
continua
Foto di Cinzia Zanconi