di Francesco Sabbatini
Esco e una brezza pungente mi investe in pieno. Autunno inoltrato, accenni di inverno brevi e intensi. Forse è giunta di l’ora di accendere il fuoco e iniziare a riscaldare corpo e anima, il primo dal freddo, la seconda dal gelo emotivo. Nonostante si cerca di colmare ogni istante, rimane sempre quella piccola fessura dove si insinua il pensiero e si ricomincia a vagare senza meta urtando con emozioni e ricordi. Ascolto un reef di chitarra di una canzone ora in voga che mi ricorda scenari di un’opera messa in piedi senza copione e senza atti, lasciata così alla rinfusa in un angolo buio di un teatro obsoleto di cui solo io e te abbiamo le chiavi del portone. Chiavi smarrite che ho provato a cercare in mezzo a dubbi e situazioni poco chiare optando anche per un passepartout che mi permettesse di riaprire il sipario e inscenare la nostra storia. Rimane solo il silenzio assordante di sedute non utilizzate e spalti mai frequentati. Riecheggiano promesse e giuramenti di un gatto e una volpe (il desiderio e la passione) esperti millantatori che boicottano la naturalezza delle situazioni. Diviene quasi indispensabile farsi attraversare dai pensieri. Pensare è un lavoro a tempo pieno e indeterminato che richiede straordinari non retribuiti, logora la salute mentale e lede la tranquillità di assaporare ogni singolo istante con inconsapevole curiosità (come invece dovrebbe accadere di norma). Tutto poi traspare dagli occhi e dal sorriso: le due etichette dove sono impresse le battaglie combattute e quelle in corso. Magari se sorridessimo di più, qualcuna di queste potrebbe essere già vinta in partenza senza nemmeno combatterla.