Longobardi… problemi di lingua II puntata

di Medardo Arduino

  editto di rotari

Sappiamo tutto dei Longobardi, tutto e in modo preciso, ma se cerchiamo di avere un quadro attendibile e concreto delle fonti da cui derivano queste conoscenze allora cominciano le perplessità e si vedono le contraddizioni. Si torna cioè al mondo delle dotte e autorevoli opinioni degli storici romantici transalpini e di quelli del Papato, che poi tutti gli storici successivi hanno fatto proprie per comodità o convenienza.Non sono e non mi considero un tuttologo ma non è difficile, pur senza lunghe esperienze specialistiche nel settore, constatare come ci si muova più su assiomi che su dati oggettivi. La prima caratteristica di un Popolo o di una Etnia è la lingua. Qual’era la lingua dei Longobardi? A leggere le molte e dissonanti spiegazioni, questa lingua è scomparsa già nel IX secolo, nessuno sa o può sapere con ragionevole certezza con quali suoni comunicassero fra loro questi che, dice la storia, sono stati i dominatori dell’Italia per un paio di secoli. Se non c’è nessun riscontro linguistico col presente, salvo appunto le opinioni dei saccenti storici ottocenteschi, non possiamo avanzare alcuna ipotesi ragionevole. Conosciamo le forme ancestrali delle lingue norrene e germaniche e della loro scrittura, ma non sappiamo nulla di nulla del “longobardo”. Dell’idioma “longobardo” non esistono tracce scritte in alcun documento, stele, graffito o altro. I vocaboli del tardo latino medioevale che si vogliono derivate dallo sconosciuto longobardo possono benissimo essere di derivazione gotica o celtica, entrambe lingue per forza di cose parlate in Italia. Della cultura longobarda sopravvive il corpus di leggi consuetudinarie fatto scrivere da Rotari a uso esclusivo dei suoi sudditi che però, come tutte le bolle e le cartule emesse a Pavia, è scritto in latino (questo non lo dico io, lo si legge in ogni testo a riguardo). Torniamo perciò daccapo con le opinioni inconsistenti su una lingua che dovrebbe esserci ma è suffragata dal latino nientemeno che per le leggi: vi invito a considerare che all’epoca dei Longobardi in Italia, ovvero l’VIII secolo, saper leggere e scrivere non era certo situazione diffusa, neppure in quei ceti e persone (gli Arimanni) che avevano dalla loro il potere e il peso della loro posizione sociale. Per questi personaggi cioè a favore e contro la loro posizione di privilegio, per dirimere le diatribe fra paritetici più che per “difesa degli umili”, Rotari ha fatto mettere per iscritto le leggi, seguendo una prassi propria della cultura romana. L’editto non fu certo redatto in unica copia, altrimenti si dovrebbe riconoscere a Rotari un profondo senso del divenire della storia, o la compassione verso i moderni cattedratici dell’alto medioevo, destinando loro un documento in singola copia ché altrimenti non avrebbero avuto ciccia per i loro saggi. Se J. M. Pardessusu trova una copia della legge salica nello studio di un notaio della Gallia Belgica, di certo dovevano esistere molte copie del testo delle leggi proprio per la loro funzione di elemento di parificazione, questo vale anche per l’editto a uso dei longobardi, certamente scritto in minor quantità di copie che per quello dei franchi (visto che i nostri barbuti erano molto meno e da quanto ci dicono gli stessi storici con atteggiamenti fortemente autonomistici) ma comunque in quantità sufficiente da servire nei giudizi. Immaginate a questo punto, pensando per un momento che quello dei Longobardi dovesse essere un regno ben organizzato, la scena della formulazione di un giudizio in occasione di una lite: immaginate il pubblico ufficiale o meglio il rappresentante dell’autorità centrale il gastaldo/gasindo che per dirimere la contestazione sfoglia il mazzo di pergamene, estrae un foglio e comincia a TRADURRE il testo dal latino in una sconosciuta lingua longobarda. Per meglio rendere il problema o la scena, se volete, comparatela con un vostro amico che traduce dal turco o anche semplicemente dall’inglese un articolo del codice di procedura civile italiano. La prima cosa che ci si chiede è perché sia scritto in una lingua estera, secondo se e quanto la conoscenza e l’esperienza del traduttore ci consente di stabilire che stia veramente trasferendo in voce e in un’altra lingua il significato giuridico (quindi univoco) del testo. Già in una diatriba in lingua madre, a parte la necessaria assistenza degli specialisti nelle procedure, non è sempre facile afferrare il pieno significato di un qualche passaggio normativo che le parti in causa interpretano diversamente: immaginate perciò la scena della “traduzione” e spiegazione del testo da una lingua straniera. La prima cosa che la parte in difetto impugna è certamente la traduzione della norma che lui non è in grado di verificare a meno che non esista un’istituzione simile a quella degli interpreti con valore legale (che però non risulta essere menzionata in alcun rigo né dell’editto Longobardo né della legge Salica a esempio). Siamo perciò in una condizione di perfetta inutilità anzi di dannosità di una simile forma di conservazione e diffusione delle norme di legge. Sappiamo bene come il peso della posizione nella gerarchia fosse determinante per l’esito delle controversie perciò se la norma scritta deve fungere da elemento moderatore del sopruso, allora almeno il suono del vocabolo, come scritto nella lingua condivisa, deve essere intellegibile da tutti gli attori, essendo anche non impossibile che almeno una persona di ciascuna delle parti sia più o meno in grado di leggere lo scritto. La formula “rogatus et vocatus” presente sulla quasi totalità degli atti sancisce questa situazione mentre non si legge mai “le parti dichiarano di aver compreso la traduzione dell’interprete ufficiale”. Perciò senza essere un giurista o un letterato, ma offrendo al lettore le mie personali considerazioni ed esperienze di rogiti internazionali, concludo che non ha senso che Rotari (lo dicono gli storici) abbia fatto scrivere in una lingua morta un inutile corpus di leggi per i suoi sudditi, una lingua appannaggio di un impero tramontato, parlata e coltivata solo da una ristrettissima elite di nostalgici del classicismo, incomprensibile a una popolazione di violenti e predatori (tutti scrivono che i longobardi erano solo dei militari, militarmente organizzati). A proposito della bellicosità dei longobardi nessuno storico che io sappia ha mai scritto, sulla base di trattati o documenti simili, dove, per conto di chi e contro chi esercitassero la guerra o anche che i longobardi fossero un popolo disciplinato e coeso, anzi mi sembrano molto “italiani” nella loro indifferenza al controllo centrale, tanto da pensare che quest’ultimo sia esistito solo come titolatura nominale mentre le sue implicazioni reali siano frutto delle opinioni dei medievisti. Infatti i Longobardi sono contraddittoriamente divisi in due o più “regni” strategicamente scollegati fra loro dalla presenza del “corridoio” tirreno-adriatico della pentapoli e dell’esarcato e anche, sembrerebbe, dalle proprietà pontificie (che sono in questo periodo avvolte dalle nebbie delle storie dei soli cronisti e di documenti di dubbia autenticità). Sappiamo di loro che infastidivano il Papa, tanto quanto lo fecero i saraceni, e che le prendono da stupidi per ben tre volte sempre nello stesso luogo e nello stesso modo (due volte Pipino e una Carlo presi alle spalle a chiusa San Michele in Piemonte). Concludo le mie personali considerazioni ribadendo la constatazione che se per davvero i Longobardi erano di etnia norrena, parlavano una lingua germanica e non conoscevano il latino, perché mai Rotari abbia speso tempo e denaro per far scrivere un editto utile solo ai medievisti contemporanei: non posso pensare che (stando a cosa scrivono gli storici) una struttura sociale che è riuscita a imporsi per due secoli su popolazioni apparente-mente inerti, non abbia introdotto come gli Inglesi nelle loro colonie, la loro lingua originale. Di popolazioni che per comodità verso “i mercati esterni” scrivono con alfabeti più diffusi e sviluppati i suoni della loro lingua è piena la storia: dagli Ittiti che scrivono il loro idioma sia col loro alfabeto sia con quello cuneiforme, ma non scrivono in lingua dei Sumeri, come anche i Copti Etiopi che scrivono la loro lingua egizia con i più pratici caratteri alfabetici greci e infine anche i cinesi attuali che tasteggiano in pinyin sulla fonetica del loro idioma (sennò dovrebbero avere una keyboard con 53.000 tasti, uno per carattere ecc. ecc). Solo questa popolazione che ormai non può più dire nulla di sé e che per decisione politica relativamente recente deve essere nordica, quando nulla di tangibile prova che lo sia (guarda caso come anche i Franchi) usa completamente e con proprietà una lingua altrui, diversissima, in nome di un fattore culturale che non è anche esso provato da alcuna trattazione dell’epoca nonostante ci siano fior di filosofi e scrittori, mi porta a pensare che questa storia è frutto di semplici opinioni imposte nell’evo moderno dall’alto degli scranni del potere e perciò diventate verità. Voglio anche proporvi di considerare che le popolazioni “assoggettate” dai longobardi erano composte oltreché dai discendenti dei legionari romani anche da quei bellicosi Goti che fecero edificare le meraviglie di Ravenna e che, a detta degli storici, misero a ferro e fuoco tutta l’Italia peninsulare, ma di cui si è persa, perché sottaciuta, ogni contaminazione linguistica degli idiomi delle terre occupate. A riguardo delle lingue dei sottomessi, come lo furono i Longobardi dai Franchi i quali, secondo gli storici, vivevano però oltralpe e quindi non potevano influire sulla lingua parlata: il Basco non si è perso, ancor meno il Catalano, il Ladino, il Sardo, e tutti i dialetti originali delle popolazioni Italiche; perché allora si è completamente perduto solo quello “germanico” dei Longobardi Scandinavi? Perché in Lon[go]bardia si parlano dialetti chiaramente celto romanzi e nello Spoletino le volgate Umbre? Chi e perché ha deciso che i suoni celtici ancestrali di molti vocaboli dialettali presenti nel latino altomedioevale anche centro italiano debbano essere invece vocaboli da radici germaniche di un popolo che però si vuole di etnia quindi di lingua norrena? Non serve interrogare le tombe: alcune inumazioni transalpine di chiara struttura celtica sono etichettate longobarde solo dalle opinioni degli storici. La conclusione è duplice: o i Longobardi non hanno alcuna identità culturale quindi non sono un popolo degno di tale definizione e perciò falso attore determinante di due secoli di una storia da riscrivere, oppure la loro vera identità culturale che potrebbe essere propria dei margini orientali del bacino celtico dell’Italia centro settentrionale, è stata artefatta per sostituirli nel ruolo storico di chi, nell’Italia centrale, poteva vantare diritti allodiali sulle terre sottomesse al trono temporale dei papi. Questo sarà l’argomento del prossimo pezzo: le sostanziali differenze nella configurazione del diritto fondiario e di successione fra la legge Salica e quella Longobarda e i risvolti di questi aspetti nel paesaggio e nell’urbanistica marchigiana.

 

Nota del Direttore

In genere non pubblichiamo articoli di questa lunghezza ma il nostro collaboratore, Medardo Arduino, partito con le ricerche sui Franchi nel Piceno, allargando le sue conoscenze, non più solo architettoniche, ma anche alla interpretazione delle fonti documentarie, si sta rendendo sempre più conto, e noi con lui, che tutta la storia del tardo medioevo riguardante buona parte dell’Italia, sia stata completamente e volutamente contraffatta. Ora sta componendo le tessere di un puzzle allargato, per avere una visione d’insieme più esaustiva e non limitata al solo Piceno, e che servirà a inquadrare sempre di più il ruolo dei Franchi e la loro presenza, da sempre, qui nel nostro territorio. Ai parolai arruffasoldi finanziati: scripta manent!

 

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