Nobiltà maceratesi

di Cesare Angeletti

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Premesso che in tempi remoti in provincia di Macerata i
proprietari terrieri erano tutti nobili, solo in tempi più recenti sono arrivati i nuovi ricchi i quali hanno acquistato le proprietà delle famiglie di sangue blu che hanno avuto necessità di alienare i loro averi, quindi per i nostri contadini, i loro “ proprietari” erano “signori “. Che poi, come in molti altri casi, la parola era stata accorciata in sor, per lui, e sora, per lei. Sor conte, sora marchesa ecc. Anche al nostro saluto “ ciao “ è successo così. I nobili veneziani si salutavano dicendo “schiavo vostro signore” i cittadini, scimmiottandoli, dicevano solo “schiavo” che poi, per praticità, e per la particolare sonorità del dialetto veneto, si è contratto in schiào e poi in ciao, ma chiudiamo la parentesi e torniamo a noi. Dobbiamo dire che la nobiltà maceratese era di due precise origini una parte erano le famiglie di antica nobiltà, l’altra era quella dei nobili ai quali il Papa aveva dato il titolo, o solo per levarseli dalle scatole perché, come si diceva allora, “promosso e poi rimosso”. Nel film “Il marchese del Grillo” il cognato di Sordi, che viene mandato via da Roma su sua richiesta, non a caso è spedito a Macerata perché il legame fra la capitale e le Marche,( la marca era la linea di confine) era strettissimo proprio per l’utilità di avere una zona dove “esiliare” chi a Roma… rompeva! Si toglieva la proprietà a chi aveva fatto una “cosa brutta” o che, semplicemente, non era più ben visto e si assegnava al nuovo “nobile”. Le famiglie nobili, che variavano da sei o sette persone sino anche a una ventina, erano gruppi patriarcali con a capo il più anziano. Intorno a loro c’erano, più vicini, i cicisbei (cavalier serventi) e le dame di compagnia per le signore, i valletti per gli uomini. Poi c’era il maggiordomo e tutta la servitù addetta alla tavola. Poi, spesso, anche una piccola guarnigione armata. Nelle stalle gli addetti a custodire gli animali e alla manutenzione delle carrozze, i giardinieri all’aperto. Tutta questa gente mangiava i prodotti che arrivavano dalle terre senza costare nulla ed era ospitata nei vari ambienti del palazzo e non percepiva veri e propri stipendi. Ma per la gente di campagna era già una grande cosa mangiare tre volte al giorno e stare e dormire al caldo d’inverno. Loro, i signori nobili, non facevano nulla se non dedicarsi allo studio, con precettori privati, suonare qualche strumento, le donne ricamare, andare a caccia e giocare a scacchi. Tutto, comunque, per loro era preparato dalla servitù che li aiutava anche spogliarsi e vestirsi e, quando andavano a tavola, gli sistemavano la sedia. Per questo, per sfotterli, i contadini dicevano: “Li nobbili non sa fa cosa! Non se sa mette manco la sedia sotto lu c..!” (I nobili non sanno fare nulla da soli, non sono capaci nemmeno di mettersi la sedia sotto il sedere). E’ vero, però, che alcuni di loro hanno anche fatto cose eccellenti. Due dei Buonaccorsi sono arrivati sino al soglio pontificio. Tornando alle comodità. Le carrozze potevano arrivare sino a dentro il palazzo perché loro non dovessero camminare più di tanto e addirittura al Palazzo Buonaccorsi di Macerata la pavimentazione del corridoio d’ingresso, dopo il portone principale, è fatta con tronchi di quercia squadrati e piantati nella terra, perché, sul legno, le ruote delle carrozze non facevano rumore e, pur entrando nel palazzo, non disturbavano i nobili. Dicevo che la famiglia era piramidale e aveva a capo il più anziano che deteneva il titolo nobiliare. L’eredità del blasone spettava, per diritto, al primogenito e per non smembrare la proprietà, per gli altri figli maschi, veniva comprato o un grado nell’esercito o il vescovado o la berretta cardinalizia nella chiesa. Entrambi, esercito e chiesa, erano molto contenti di cambiare in soldoni contanti i gradi o le porpore perché tale mercato impinguava continuamente le loro casse. Le figlie femmine, fornite di una buona dote, erano “piazzate” come mogli in altre famiglie nobili e, se il grado del marito era inferiore al loro, conservavano anche il proprio cognome. Molte delle famiglie a doppio cognome, anche oggi, hanno tale origine. Se non trovavano il marito giusto erano avviate al convento dove, se la famiglia era in grado, acquistava il titolo di superiora (la manzoniana monaca di Monza) altrimenti, vista la dote portata, erano sempre trattate con tutto il rispetto pur essendo solo suore. Voglio concludere questa mia carrellata sulla nobiltà riportando un dialogo fra conte e contadino che fa capire proprio perché…  i signori erano Signori. “Sor conte io ci-agghio certi dolori reumatici che me fa suffrì come un cà’!” (Signor conte ho certi dolori reumatici che mi fanno soffrire come un cane) “Beh! Abbiamo la stessa età e anche io soffro con i dolori reumatici!” “E sci ma non adè la stessa cosa” (Ebbene sì ma non è la stessa cosa), rispose il conte: “E perché?” – “Perché vuà (il voi era d’obbligo in segno di rispetto) soffréte cò tutte le cumudità!” (Perché voi soffrite con tutte le comodità!) Per il nostro saggio vecchio anche nella sofferenza della stessa malattia fra poveretti e signori c’era una sostanziale differenza, e cioè che lui, poveraccio, soffriva al freddo e costretto comunque a lavorare, invece il conte subiva si le stesse sofferenze con tutte le comodità dovute al rango e con tutti gli agi dovuti alla sua nobiltà e alla sua invidiabile posizione economica.

 

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