Maurizio Boldrini, il fabbro nel vano

di Carla Camilloni

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C’è un luogo in cui gli artisti si riconoscono in quanto colleghi del fare, è il luogo straniero alle carte geografiche politiche, è come il vano di un fabbro, talmente fisico e assordante da essere escluso dal decoro “civile”, eppure così presente oltre le parole. È così che Maurizio Boldrini ha conosciuto Hector Ulises Passarella, genio del bandoneon, a casa di un’amica comune, in un piccolo e prezioso paese del fermano: due importanti artisti d’adozione maceratese si riconoscono nell’accoglienza di una casa. Ma circa quindici anni prima Maurizio Boldrini, in uno dei suoi laboratori effettuati nelle scuole, tra i tanti bambini con i quali operava, ne notò uno, timido, che mostrava una particolare attenzione all’arte del gioco teatrale. Si trattava del figlio del grande maestro del bandoneon. Quel bimbo, seguendo le orme del padre, è divenuto un ottimo compositore e quando l’occasione si è presentata ha chiamato quello che era stato il suo maestro di dizione e recitazione, affidandogli la voce di messa-qoeletQoelet per la sua opera più importante, la Messa Qoelet che ha esordito in prima assoluta il 6 giugno, al Palazzo della Cancelleria Vaticana. Boldrini conosce Roberto prima del padre Hector Ulises, ma ancora prima ha conosciuto la mamma di Roberto che fu una delle prime persone a rispondere all’invito di un Boldrini ragazzo intenzionato, per la prima volta, ad allestire un lavoro teatrale della scrittrice maceratese Franca Petracci. La strana coincidenza dell’incontro generazionale testimonia che il sentimento dell’arte è duraturo in riconoscenza, affinità, relazione, memoria. Maurizio Boldrini, quindi, fabbro che opera il proprio vano, viaggia per “l’infinita vanità del tutto” di Giacomo Leopardi, si ferma ne La valle dell’inquietudine di Edgar Allan Poe rilanciandola con il capolavoro Nel vano delle viole non colte, inventa Vana, l’edificio di Ingegneria Umanistica e approda alla “vanità delle vanità” del Qoelet, facendo risuonare lo stupore della voce in un altro “vano”, la rinascimentale sala vaticana del Vasari. In questo percorso riaffiora la spiritualità di drammaturgie teatrali già realizzate: Mistica minore, studio sulla collera dall’Antico Testamento; Gli ultimi 36 Santi delle Marche, interpretati dalle scritture di poeti contemporanei; le molteplici edizioni de La Passione di Gesù; la Sacra Rappresentazione della Natività e Passione di Nostro Signore di Dante Cecchi per la musica di Carlo Paniccià. Un fabbro che forgia il ferro nello scuro di un vano officina, illuminato solo dal rosso vivo del fuoco: questa è l’immagine impressa nella memoria di Boldrini bambino e lo slancio del braccio che colpisce la materia incandescente, l’abilità delle mani all’opera, il suono dei colpi, la nuova forma che quel materiale ha acquisito, rimangono vicinissimi al modo di vivere di quella fabbrica di poesia che è il Minimo Teatro. Ora alcune domande a Maurizio Boldrini per esplicitare il suo “vano” operativo.

Il timbro del suo gesto verbale sembra trasmettere un quid spirituale, addirittura religioso. E’ una impressione giusta? Non discuto le impressioni. Nel 2000, l’allora Vescovo di Macerata Luigi Conti, mi ascoltò recitare “Gli ultimi 36 Santi” a Tolentino. Al termine della recita venne a congratularsi con me e stringendomi la mano mi disse: “O lei crede moltissimo, o è un bravissimo attore”. Risposi con un sorriso. Per me lo spirituale è l’intimo materiale, l’anima, pneuma che muove la lingua, che altrimenti sarebbe accessorio come un’unghia. Di religioso, invece, mi riconosco nel dettato dell’ascolto, quando sono in azione verbale la mia attenzione istintiva è a ciò che trasmetto nell’aria e/o a ciò che producono gli altri artisti con cui interagisco. La mia vera azione sta nella rapida reazione alla mia stessa voce.

E’ questione di maestria tecnica? Non direi, almeno per me è attitudine normale, e non capisco come ci siano tanti “attori” che spacciano la propria voce, la fanno morire in una più o meno bella emissione. Una volta Kaya Anderson del Roy Hart Theatre, ascoltando una mia registrazione mi scrisse una bella lettera, mi colpì particolarmente una riga in cui scrisse: “ascoltandoti ho l’impressione che il diavolo ti sia sempre alle calcagna, ma non riesce a prenderti”. E’ uno dei più bei complimenti che ho ricevuto, perché coglie in pieno l’essenza della mia operazione in voce: sono costantemente in gara, meglio in gita, nell’atletica tra corpo della scrittura e il mio corpo verbale.

Cosa la diverte di più nella “gita”?

La comunione artistica e relazionale che si crea con le persone che si prestano a operare con me o io con loro.

Invece, cosa la infastidisce di più?

Beh, sono molte, troppe le cose che mi infastidiscono, una, per limitarmi, è che chi ha il potere di decidere sull’organizzazione dell’arte, è spesso nell’ambito della mediocre burocrazia, ma comunque m’infastidiscono di più le cinture di sicurezza.

 

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