di Tamara Moroni e Cesare Angerilli
TAMARA
Non saprei se quelli che la mia generazione chiamava “filarini”siano presenti ancora oggi nel vocabolario giovanile alla voce “primi amori”, probabilmente no. So che, per me e per quanti hanno la mia età o giù di lì, sono stati l’ultima delle malattie esantematiche infantili o, se preferite, la prima dello sbocciare adolescenziale. So che a un certo punto della nostra giovane vita, si cominciava, inevitabilmente, a filare. Era tutto un filare, tutto un prendere e lasciare. Per me e le mie coetanee, cresciute come eravamo in un non paese, in un crocevia, poche anime, poche case distribuite tanto a destra quanto a sinistra lungo la strada, senza una piazza, una centralità comune, il filare godeva di un maggior raggio d’azione rispetto a quanti, maschietti e femminucce, abitavano in un paese vero con tanto di storia, di piazza, giardini e viuzze più o meno strette. Così, baciati per nascita da questo beneficio di extraterritorialità, potevamo spaziare, belle e filanti, per tanti e tanti paesi d’intorno: da Loro Piceno a Sarnano, da San Ginesio a Urbisaglia, con punte addirittura fino a Falerone e Servigliano, fuori provincia. Avvantaggiate da un lato, eravamo però fortemente svantaggiate da un altro: non avere filande appropriate dove svolgere la nostra attività principale. Altro non avevamo, nei giorni feriali, che due bar come luoghi destinati al nostro filare, uno di fronte all’altro, uno di qua uno di là della strada; e questi sì erano centralissimi, soprattutto agli occhi dei nostri genitori e non solo. Perciò si aspettava con ansia e ardore la domenica, quando nel locale cinema, terminata la programmazione, fissa, del film a luci rosse che andava dal giovedì al sabato, le porte si aprivano a tutti noi, minorenni. Certo, chiamare quel nostro locale cinema, è un azzardo linguistico e concettuale non da poco, ma tant’era, non poteva essere diversamente, nel rispetto del nostro non paese, quel nostro cinema non aveva bisogno di altre aggiunte di nome, era Il Cinema, e ci bastava. Ogni santissima domenica, quindi, con la neve, la pioggia o il sereno, era in quella tela di ragno che finivamo tutti. Non aveva nome, che io ricordi, ma somigliava in tutto a una sala cinematografica: due grossi vasi di piante sempreverdi ai lati della vetrata d’ingresso, la biglietteria, il cartellone del film in programma nell’atrio, e due spesse tende marrone chiaro a separare l’ingresso dalla sala, unica ma spaziosa, senza galleria, funzionalmente versatile, all’occasione, col suo soppalco sotto il grande schermo, per balli in maschera con orchestra e veglioni vari. Poco più in là della vetrata d’ingresso, due pertugi maleodoranti con su scritto “uomini” e “donne”, che, pure quelli, chiamarli toilette sarebbe veramente troppo. Solo grazie alle nostre giovani vesciche, ne siamo sempre state lontane, anche interi pomeriggi. E infatti, si entrava alle 14,30 e si usciva per rientrare a casa puntuali per l’ora di cena, alle 20. Con un unico biglietto, cinquecento mille lire, passavi l’intero pomeriggio, chiaramente se avevi fatto i compiti il sabato. Capitava anche, non di rado, di non tirarle nemmeno fuori quelle tot lire che chiedevi per intercessione a babbo o a mamma, se all’ingresso ci fosse stato il proprietario che, vedendoti passare e ripassare davanti, sbirciare il cartellone, tentennare, ti accennava un sorriso, tu ricambiavi aspettando un segnale certo mentre stavi mettendo dentro un primo piede, poi un altro, finché, con un gesto di mano improvviso, quel segnale arrivava ed era il via libera all’ingresso in sala. Eri dentro senza pagare il pedaggio settimanale, soprattutto, con una sommetta in tasca da reinvestire tutta in popcorn, tuc e chips. Perché lo facesse, l’ho capito tempo dopo: era incentivo, promozione, marketing, ché se non entravano le ragazze, specie quelle carucce, non seguivano i ragazzi, che da sempre hanno preferito il campo di pallone o le prime escursioni in discoteche fuori zona chi già patentato. Quale film si proiettasse, quale film stessimo vedendo, è ancora tutto da decifrare; a parte il filone western che andava per la maggiore, ho ancora gli occhi pieni di polvere, abbiamo visto film che, ci scommetto, nessun critico cinematografico riuscirebbe a iscrivere a un genere. Poco importava, comunque, a quale ultima visione stessimo assistendo, cosa ci scorresse davanti agli occhi, troppo prese dal cercare nel buio e in mezzo al fumo di sigaretta, se e dove fosse il vero oggetto della nostra attenzione. Erano altri i sensi impegnati, specie quando quella sedia vuota accan-to, finalmente veniva occupata e una mano timida, sudata, veniva a cercare la tua, per non lasciarla più, domenica dopo domenica.
CESARE
Tamara, è bellissimo quello che hai scritto, quanta poesia, l’ultima frase poi mi ha fatto scappare una lacrimuccia. Anche io, sa, ricordo il buio e il fumo del cinema presso il teatro G. Leopardi di San Ginesio, e le luci che si accendevano alla fine del primo tempo, che beccavano sempre qualche amico, più intraprendente, tutto spettinato non si sa come, anche io ricordo le mani sudate, ma non cercavano la mia mano altrettanto sudata, anzi, è quindi la poesia che non ricordo. Innanzitutto, in estate, nel primo tiglio all’ingresso del Colle c’era la locandina che Peppe Cianca attaccava ogni mattina con le puntine, d’estate il cinema era tutte le sere, con sopra la scritta “oggi” malamente ritagliata dalla rivista Oggi. In inverno il cartellone era in piazza, ché al Colle non ci andava più nessuno se non coraggiose e calorose coppiette in cerca di intimità, dietro il monumento ad Alberico Gentili, tra la cartoleria de Vasì e il negozio de Torquato, legato con lo spago a un discendente, quasi sempre a terra, cappottato dalla biribina invernale ginesina. Dei cinema invernali ricordo interminabili e pallosissimi western, con Bobo Vasconi, grande appassionato del genere, immancabilmente seduto sulla prima sedia nella galleria di sinistra; guai a fare casino, come facevamo invece noi, Bobo si alzava con calma e senza proferir parola ti mollava di quei cazzotti, giusto per ristabilire l’ordine, che ricordavi chi eri solo dopo un paio di settimane. Nessuna sudata mano femminile, ma d’estate, cavolo, era tutta un’altra cosa, c’erano le villeggianti. In teoria al cinema avresti dovuto andare solo se fuori era brutto, aveva fatto un temporale con calata di nebbia, il campanile della Collegiata non si vedeva più ed erano meno di 18 gradi ché, diversamente, si stava meglio al Colle, ché tanto era scuro lo stesso. Entrare al cinema in comitiva, maschi e femmine, per noi adolescenti zotico-ruspanti abituati alle classi solo maschili, era già di per sé un’emozione. Se eri di punta entravi in platea e cercavi, disperatamente, di sedere vicino alla ragazza che ti piaceva che, se piaceva a te, piaceva anche a tutti gli altri, se la ragazza ce l’avevi acquisita cercavi, sempre disperatamente, di trovare un palco aperto, li dovevi passare tutti e, se eri fortunato, ne trovavi uno aperto che il film stava per finire. Del resto andava bene così, che se l’avessi trovato subito poi non avresti saputo cosa fare, da solo con una ragazza che ti piaceva. Al contrario di quello che capitava a te, Peppe Cianca faceva pagare tutti, anche le ragazze carucce; non ho mai pagato un ingresso a una ragazza, avevo già dato, tanto mi costavano le ragazze filanti con tutte le multe che prendevo con loro in due sul motorino. Seduto vicino a chi ti piaceva tu già filavi, anche nel caso, frequentissimo, che lei non ne sapesse niente, ma a volte potevano nascere, dal buio fumoso di quella sala, anche filamenti ufficiali, destinati a durare persino un’intera estate e, nei casi più seri, persino tutto un inverno di corrispondenza postale. Vedere il film era impossibile, concentrato come eri a pensare mo’ la bacio, mo’ la tocco, mentre lei, che forse non aspettava altro, faceva finta di seguire interessata la trama. Ogni tanto si sentiva lo schiocco di qualche sonoro schiaffo, un qualche amico che dal pensiero era passato… all’azione. Una volta toccò anche a me: da più di mezz’ora stavo facendo la mano morta con tattica d’avvicinamento, mi feci coraggio e l’abbracciai; dalle sue esili e abbronzate braccia partì uno schiaffo che mi centrò in pieno, poco male, agli schiaffi ero abituato dai tempi del maestro Oscar, e anche mamma non ne era avara; però la mia partner aveva al dito un anello,un anello preso ai distributori davanti le porte dei bar, messi vicino a quelli delle ciccingomme, quelle belle ciccingomme a pallina, colorate, mettevi 20 lire, giravi la manovella e usciva la palla di plastica con dentro qualcosa, in quel caso uscì un anello, lo stesso che mi colpì in pieno volto. Molto sangue sulla maglietta ed ennesima medaglia al valore, dato che ne porto ancora il segno proprio a metà del naso: un capillare andato per sempre per colpa di un anello di latta. Come sempre accadeva in quei tempi felici, tutto finiva bene, e alla mia partner feci talmente pena così conciato che mi abbracciò lei e mi baciò. Il film che stavano proiettando? Boh, non lo ricordo, proprio per niente lo ricordo. Poi tornavano l’inverno e la scuola, le villeggianti non c’erano più, le nostre paesane chiuse in casa a fare il punto croce, e noi ci ritrovavamo la domenica pomeriggio nello stesso cinema, l’unico, a sorbirci il solito western con l’ansia di avere Bobo alle spalle o un filmetto con la scena della doccia, in quel caso nella sala calava il silenzio, tutti eravamo attenti, attentissimi ma Bobo Vasconi non c’era, solo western lui!