“La caduta”

Prefazione al nuovo libro di Adriano Accorsi

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La prima poesia di questo nuovo libro, ha come titolo proprio “La Caduta”:

“Urlavano parole contro il Padre: / “Vogliamo seguire la nostra volontà e non la tua. / La nostra / E non la tua”. / Dopo precipitarono. / Allora non videro più gli azzurri e neppure i verdi./ Non videro più la luna né le stelle. / Ma solo il precipizio a vortice nel buio e nel silenzio. / Precipitarono. / Precipitarono chissà per quanto tempo?…

E’ chiaro il riferimento al poema di Milton “Il Paradiso Perduto” intorno alla ribellione di Lucifero e dei suoi seguaci e alla cacciata dal Paradiso per giudizio divino. Il verso: “Precipitarono chissà per quanto tempo?” contiene certamente il dubbio dell’autore che esso continua ancora e che, forse, continuerà sino alla fine del mondo e quanto costa tutto ciò al genere umano? A questo punto è necessario parlare dell’autore, innanzitutto come uomo e poi come poeta. Adriano Accorsi lo conosco da sempre: cassiere di banca, retto e onesto, esperto del terribile potere di corruzione del denaro, dell’atavica tenacia del male di subornare e di costringere gli esseri umani a continuare, qui sulla terra, la rivolta dell’arcangelo ribelle. Il nostro uomo è anche un credente sincero e fervente al quale non sfugge il trasformismo dell’anima umana che decide sempre più di realizzare, qui su questa nostra terra dolente, “l’Hic et Nunc”, il “Qui e subito”, senza tentennamenti, senza alcuna preoccupazione del rifiuto, come vile e inutile ciarpame, della divina opera di redenzione del Figlio di Dio: “Bevevano, bevevano ma non vino o whisky o gin / O altri liquori, no! Bevevano soldi, bevevano, bevevano soldi/ E non potevano più fare a meno di berli. Erano come / Alcolizzati sì alcolizzati ma non di vino / Di whisky di gin / O di altri liquori erano alcolizzati, alcolizzati di soldi. / E intanto cielo terra e mare diventavano / Sempre più neri”.

Al poeta Accorsi non sfugge l’enormità dell’umana tragedia, non passa oltre con indifferenza per realizzare una smodata brama di oro e di onori, non abbandona a se stessi figli e moglie per rotolarsi su mercenari talami di lussuria, no, egli snida e svela il trasformismo del male e lo denuncia e lo rivela al mondo intero. Lungo tutto il tempo dedicato con amore alla poesia egli ha forgiato il suo linguaggio per renderlo affilato e incisivo, sciolto e musicale eppur sferzante: Dai loro cuori serpenti velenosi e impietosi / Che si mordevano / L’un l’altro con ferocia per iniettarsi il veleno. / Gli occhi implacabili. / Le voci sgraziate ferivano la mente di chi li ascoltava. La visionarietà della sua parola è strumentale allo svelamento dell’arcano, di quel mistero che circonda e fa sfumare la sua anima nella caligine della valle della solitudine dove anche il silenzio ha una sua eco. La sua poesia quindi è macchiata da un pessimismo ragionato, vissuto e sofferto sulla propria pelle, di un pessimismo che toglie la speranza e condanna il poeta a vivere i suoi tormenti in ogni istante della sua vita trasformandolo proprio in quell’angelo ferito della copertina, dipinto dal pittore finlandese, Hugo Simberg, angelo che viene trasportato da due barellieri distratti in un ospedale lontano e sconosciuto o che forse non esiste affatto.

Matteo Ricucci

 

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