di Cesare Angerilli
Ogni Pasqua era bellissima, forse la festa più bella, più del Natale, anche se non c’erano regali; gli alberi da frutto erano tutti in fiore, l’inverno solo un ricordo, sui Sibillini cominciava a vedersi il verde, le giornate erano tiepide e noi toglievamo i pantaloni lunghi invernali per mettere quelli corti, quelli che arrivavano al ginocchio, che allora si chiamavano all’inglese; oggi fa bello a febbraio e a Pasqua nevica.
La casa era linda e profumata, dopo giorni e giorni di pulizie accurate, le finestre finalmente aperte ad accogliere il calore del sole e l’aria profumata di primavera, era come tornare alla vita dopo il letargo invernale; oggi ti accorgi che è Pasqua perché il giorno dopo è ancora festa, e non devi lavorare.
I panni da mettere il giorno di Pasqua erano preparati con cura, giorni prima, quando non nuovi messi all’aria, per togliere l’odore di naftalina, stirati alla perfezione, messi in ordine sopra un letto che non si usava, che era detto degli ospiti, dove vedevi i miei pantaloni corti insieme al vestito di babbo, la camicetta di mamma e la gonna di Maresa; oggi ogni tradizione è stata abbandonata, per dimenticare il nostro passato di gente umile, rispettosa, timorata di Dio, il nostro passato che viene dalla campagna.
In cucina era tutto un lavorare, si preparavano gli impasti per le pizze di Pasqua, al formaggio o con i canditi, si portavano a cuocere da Sara, erano buonissime, sode e umide, profumavano tutta la casa; oggi no, pizze e ciambelle si comprano al supermercato, non fatichi, non sporchi la cucina e non ti rovini lo smalto.
A scuola ci facevano portare le uova sode, si dipingevano con il pennello piccolo e i colori a tempera, si dava una mano di coppale alla fine ed erano vere opere d’arte, sotto al tema o al pensierino pasquale si disegnava la cornicetta con le uova e i pulcini; oggi no, non si può, sarebbe politicamente scorretto, siamo multietnici.
Il Giovedì Santo c’era la lavanda dei piedi, apostoli noi bambini, mamma, poco prima della Messa, mi lavava i piedi col sapone alla lavanda, mi metteva il borotalco e i calzettoni nuovi, con quei calzettoni in mano una volta rimasi lì, in piedi vicino all’altare, smarrito, che stavo per mettermi a piangere, ché non me li sapevo rimettere da solo i calzettoni, me li mise il signor Bruno, il padre dell’amico Giorgio, tra le risate dei fedeli; oggi gli apostoli sono i bambini di allora.
La sera del Venerdì Santo i genitori ci portavano a fare il giro dei Sepolcri,ogni chiesa ginesina aveva il suo, uno più bello dell’altro, ci si fermava davanti al tabernacolo ornato di fiori bianchi, con il profumo di gigli, calle e mughetti che ti inebriava; oggi un solo Sepolcro in una sola chiesa, non vale la pena uscire di casa.
La notte del Sabato Santo si scioglievano le campane, dopo il silenzio quaresimale, più di venti campane da più di dieci campanili, tremavano i muri di casa, era Pasqua, che bellezza, eri felice; oggi il suono di una campana, forse due, stonato e svogliato neppure ti sveglia dal sonno.
La Messa delle undici e un quarto in Collegiata era solenne, cantata; eravamo tutti ben vestiti, belli, pettinati, profumati, piccoli o anziani, Lucio cantava il Te Deum e ti faceva uscire le lacrime dalla commozione, nei confessionali era in fila anche chi non era uno stinco di santo, le omelie di Don Luigi ti convincevano che eri migliore di quello che pensassi; oggi i soliti quattro gatti in Chiesa, i confessionali semivuoti e un prete che celebra svogliato.
Il pranzo era bellissimo, con il servizio meglio che c’era, la tovaglia candida, l’ampolla per l’acqua di cristallo, il grande uovo di Pasqua in mezzo alla tavola, eri felice pensando all’apertura di quell’uovo di cioccolato al latte, pensando alla sorpresa che c’era dentro, anche se eri grandicello, la carta colorata si conservava, si metteva in un cassetto, non so per farci cosa ma era troppo bella per essere buttata; oggi per il giorno di Pasqua di uova al cioccolato ne hai già mangiate sessantotto, del portachiavi di latta come sorpresa te ne freghi, perché hai tutto. Dopo pranzo si faceva una bella passeggiata per le vie ginesine, tutti insieme, le rondini preparavano i nidi sotto i cornicioni, incontravi gente gentile, amica, ci si fermava a parlare, gli orti erano pieni di fiori, le erbacce già tolte; oggi incontri gente che non saluta, che non ha voglia di parlare, che non ti conosce, e gli orti sono pieni di erbacce e le galline, le papere, e anche qualche maiale, non ci sono più, e gli orti non si chiamano più orti, si chiamano giardini, che tanto l’insalata la compri confezionata.
Poi la benedizione delle case: le case ginesine si benedivano poco prima, durante o poco dopo la Settimana Santa; oggi il prete viene a benedire casa a Ferragosto, se viene.
Il prete non andava mai solo ma accompagnato da due chierichetti con tonaca e cotta d’ordinanza; sono stato spesso uno di quei due chierichetti.
La signora, padrona di casa, aveva preparato per noi un bel rinfresco. Don Luigi benediva la casa, noi reggevamo il secchiello con l’acqua benedetta e l’aspersorio e consegnavamo il santino gigante con la preghiera da appendere. Poi la signora, gli uomini non c’erano quasi mai, dava la sua offerta a Don Luigi e qualche spicciolo a noi chierichetti e poi… rinfresco: ciambelle e pizze di Pasqua, mai vista una colomba Motta, uova di cioccolato a volontà, qualche volta anche uova vere e fette di salame; da bere vermut o vino cotto per Don Luigi e spuma, chinotto, gazzosa per noi, mai vista una coca cola.
Né noi chierichetti né Don Luigi potevamo rifiutare quei rinfreschi preparati con amore giorni prima; qualcosa bisognava mangiare e qualcosa bisognava bere. Noi chierichetti facevamo del nostro meglio e quando nessuno ci vedeva, scolavamo quello che era rimasto dai bicchieri di vermut o vino cotto, stufi e pieni di analcolici gassati.
Le case da benedire erano tante; si cominciava verso le due del pomeriggio e si finiva verso le sette; dai compiti di scuola eravamo dispensati da un’antica bolla pontificia; in ogni casa dovevi mangiare e bere, per non offendere nessuno.
Ricordo una volta che entrammo in casa di un’anziana signora in piazza Alberico Gentili; ci presentò una pizza di Pasqua che era stata vuotata all’interno, sembrava la capanna del presepio. La signora ci raccontò che un po’ di quella pizza, che aveva fatto lei, se l’erano mangiata i topi, ma erano state tolte con cura le parti rosicchiate e si poteva stare tranquilli (nei primi anni ‘60 la fame della guerra era ancora un ricordo recente e non si sprecava niente). Nonostante fosse una delle ultime case da fare quel pomeriggio, nonostante la pizza poco invitante, sia Don Luigi, sia noi chierichetti, sia la signora, mangiammo anche quella di pizza.
A sera tornavamo in sacrestia: Don Luigi accusava un po’ di stanchezza e di vermut e aveva le orecchie paonazze, noi chierichetti ci toglievamo tonaca e cotta con il colesterolo a 600, la glicemia a 7.000 e un tasso alcolemico da ritiro della patente ma erano gli anni ‘60, il ritiro della patente non era stato ancora inventato, noi la patente nemmeno ce l’avevamo e a casa ci tornavamo a piedi.
BUONA PASQUA A TUTTI VOI DA MINCHIATINE GINESINE!