di Medardo Arduino
Tratto da “Basilicam quam capellam vocant ad Aquisgrana in val di Chienti” Ipotesi ragionata per la localizzazione della basilica della tumulazione di Carlo Magno nelle Marche
Non essendo uno storico dei documenti e non potendo da solo rivedere le migliaia di fonti documentali trascritte, proverò a tratteggiare le risultanze della collazione delle fonti immobili (edifici e manifestazioni artistiche) con fonti trascritte e pubblicate, accessibili ora grazie agli “scan” dei testi sette-ottocenteschi messi in rete dalle Università Nordamericane. Nel periodo che va dal IV al V secolo scendono nella penisola italiana praticamente tutte le popolazioni seminomadi che popolavano le pianure centroeuropee, fra queste anche un consistente nucleo di cacciatori Franchi, questa etnia si stabilisce nella parte centrale del territorio marchigiano, fra i Sibillini e il mare, dove forse ci sono ancora le tracce di un cataclisma che ridusse drasticamente il popolamento della zona per qualche tempo. Nella stessa zona sono localizzati anche i portatori del messaggio religioso, sociale e culturale di Basilio da Cesarea da cui si svilupperà il movimento di Benedetto da Norcia. La koinè Piceno, Etrusca, Celto-Senone, Romea e Franca che lentamente ripopola il territorio, produrrà quella cultura originale che caratterizzerà il medioevo cristiano. I Franchi, nella quindicina di generazioni che intercorrono fra il tempo di Alarico e quello di Carlo Magno amalgamano lingua, usi, ed esiti culturali con quelli dei locali. Il risultato di questo processo è la nascente cultura della nuova Europa carolingia, di cui un esempio indiscutibile è il latino Franco Salico altomedioevale che come lingua parlata dal potere diventerà la lingua ufficiale dell’Europa feudale Carolingia. L’ordine monastico Benedettino e l’aristocrazia militare Franca stabiliscono un rapporto simbiotico: il potere del Maggior Signore o Prefetto (dal secondo Pipino in poi) consente agli abati il mantenimento di un caposaldo territoriale: il monastero o abbazia, l’Ordine non ha potere di coercizione militare, ma dalle spade franche riceve la copertura per imporre decime sulle proprie pertinenze. I monasteri accumulano le scorte alimentari che sono a disposizione degli eserciti franchi nel loro continuo peregrinare nell’Europa centrale per incamerare tributi dai vassalli. La disponibilità economica non reinvestita nelle spedizioni militari viene utilizzata per incrementare l’economia agricola delle proprietà allodiali imperiali nelle Marche (cfr. Capitulare De Villis) cui fanno corona gli allodi dei luogotenenti “più alti in grado” (dei quali rimarranno dopo il X sec alcune grandi famiglie come i Varano che li manterranno come feudi oblati al papato). Alla morte dell’Imperatore, il vuoto di potere lasciato nella Francia Salica Picena dal trasferimento al nord dei tre nipoti pretendenti l’impero: Carlo, Lotario e Ludovico, consentirà al Papa Re di sostituirsi loro acquisendo la “provincia picena” che reclamerà come sua da sempre “contro le indebite pretese degli imperatori Germani” come scriverà Giò Marangoni nelle sue memorie. Il Marangoni spiega la linea giuridico-politica del Papato che per dimostrare l’origine del diritto sulla Provincia Picena, la dichiara parte del Ducato di Spoleto fondato da Alboino nel 571, l’autore lo fa confermare anche dal Muratori scrivendo: “Al tomo 10 colCCLXI ove leggesi : Piceni nomine venit pars Ducatus Spoletani inter Appenninum & Adriaticum” Poi conclude “Quindi è che tutto il Piceno, e ciascheduna città, e luogo di quella Provincia, furono soggetti al dominio di chiun-que impadronivasi del Ducato di Spoleto”. Giò Marangoni “Memorie Sagre e Civili di Civitanova” 1753- Anastatica Arnaldo Forni 1982, libro III capo III pagg 237-238. Da quella pretestuosa affermazione si sviluppa tutta la linea di giustificazione del possesso papale. Rimane però la questione aperta e mai cancellata/cancellabile della memoria popolare: “Qui si è sempre saputo, ma non si poteva dire”. Nella valle del Chienti restano ancora le tracce “immobili” della presenza Imperiale e del ricordo di Carlo e delle sue proprietà. Se nella memoria che la gente del luogo si tramanda, l’Imperatore non è cancellabile, allora con il cliché che sarà sempre più utilizzato, tanto nei testi pubblicati “con l’autorizzazione dè superiori”, quanto nelle prediche dei Curati alla popolazione, si “smussano gli spigoli” della questione con la nuova versione: è vero che Carlo Magno era in Val di Chienti, e basterà dire che lì non era casa sua, ma come scrive Andrea Bacci: “Ci è venuto due o tre volte con numerosissimi eserciti…” per difendere il Papa dai Longobardi e per combattere gli infedeli Saraceni, oltreché per andare a farsi incoronare. È in memoria di queste visite che ha fondato “un monistero, a nome, ed esaltazione della Santa Croce… il qual tempo è abazia, oggi lontana da S. Elpidio tré miglia…. E più oltre si vede ancora una parte d’un palazzo da campagna antico che fino al dì d’oggi dalla memoria di sì gran fazione [maestosità] è chiamato il Palazzo di Ré Carlo, e più inanzi a la riva di là dal Chienti, ordinò una chiesa ad onore di Maria Vergine dove se bene le scritture col tempo periscono, vi è pure rimasta la fama dei suoi antichi privilegi, che vi fussero stati sepolti ed acclamati come Martiri di quella giornata, molti religiosi, e Santi Uomini [così si dissimula il ricordo delle sepolture imperiali n.d.a]…”. In: Notizie dell’antica Cluana oggi S.Elpidio e di molte altre Città e Luoghi dell’antico Piceno raccolte da Andrea Bacci celebre scrittore del XV secolo – Nuovamente date in luce in Macerata per gli eredi del Pannelli 1716- con licenza dè superiori. Se avessi potuto leggere questa pagina del Bacci un paio d’anni fa, mi sarei risparmiato un mucchio di elucubrazioni e ipotesi.