a cura di Cinzia Zanconi
Pane dei poveri, ma palestra di fantasia per le nostre nonne. Gialla, morbida e fumante è rimasta a lungo unico sostegno alimentare per contadini e montanari soprattutto nell’Italia settentrionale; oggi rappresenta una ricercata specialità gastronomica. La sua storia corre parallela a quella dell’uomo e all’evoluzione delle sue forme di alimentazione.Infatti le polente, intese in senso generico, sono senza data e le modalità di base della loro preparazione rimangano sostanzialmente le stesse: la cottura in acqua di cereali ridotti in polvere. Innanzi tutto il temine “polenta” non ha nessuna etimologia. Conosciuta già dai Greci e dai Romani, conserva nel suo nome la sua origine latina, puls. La polenta allora era fatta con il farro, una specie di riso dal chicco duro, ma non aveva la consistenza della polenta di mais. Si condiva con latte, formaggio, carne di agnello, maiale e salsa acida ed era conosciuta in tutta l’area mediterranea. Famose sono le polentine tramandataci nelle ricette di Plinio e Apicio, vecchie più di due millenni. Ricette di polenta di castagne, di miglio e polente di spelta ci sono state lasciate da Maestro Martino da Como, cuoco del Patriarca di Aquileia (XV secolo). Nel De honesta voluptate et valetutdine dello scrittore Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, alla fine del XV secolo, ritroviamo la polenta di farro. I legionari romani portavano con sé un sacchetto di farina di farro che cucinavano sotto forma di polenta. Oggi quando parliamo di polenta intendiamo un impasto di farina di mais. E anche per questo nuovo cibo dobbiamo ringraziare Cristoforo Colombo che, al ritorno dal primo viaggio nel Nuovo Continente, portò con se alcuni semi di una pianta chiamata mahiz (grani d’oro, dal nome indigeno deriva anche il nome botanico della pianta, Zea mays). Alcuni reperti paleobotanici hanno permesso di stabilire che il mais veniva coltivato da almeno 3000 anni in varietà simili a quelle contemporanee ed era sicuramente conosciuto da Maya e Aztechi. Le prime coltivazioni si diffusero in Europa 30anni dopo la scoperta dell’America, in Andalusia introdotte dagli Arabi che lo impiegavano come foraggio; verso il 1520 la coltivazione si diffonde in Portogallo, di seguito in Francia e nell’Italia del Nord. Tra il 1530 ed il 1540 arriva a Venezia. Inizialmente veniva coltivato a scopo di studio in orti e giardini di appassionati botanici, ma la prima regione italiana a coltivarlo in campi veri e propri fu il Veneto, dove fu introdotto prima del 1550, secondo quanto afferma Ramusio, storiografo e geografo al servizio della Serenissima. Dal Veneto, il mais si diffuse in Friuli, dove la sua presenza è documentata dal 1580, quindi nel bergamasco. A Milano, una grida del 1649 dispone l’apertura del mercato alla vendita del mais per contrastare la penuria di altri grani. Da qui ha proseguito verso l’attuale Ungheria del Sud e la penisola Balcanica. Il mais venne chiamato grano turco per indicare la sua origine straniera, infatti con il termine turco nel XVI secolo si identificava tutto quanto aveva origini coloniali. In Piemonte si diffuse a metà del ‘700 e da subito andò a occupare un posto di rilievo nella cucina locale. Dopo aver incuriosito i raffinati palati del signori dell’epoca, la polenta fu presto bandita e divenne il cibo della dieta delle classi meno abbienti. All’inizio dell’800, periodo di guerre e carestie, fu il piatto più consumato dai contadini, spesso del tutto scondito, perché costava meno del pane e riempiva la pancia. Vecchi proverbi citano: “Un poru contadì fadiga e stenda, lu meju pastu sua è la pulenda” oppure “6 dì 12 pulende”. Ma era un cibo povero, carente in principi nutritivi, soprattutto di vitamine e fu la causa del diffondersi della pellagra, una vera piaga sociale, che non era conosciuta dagli indigeni d’America perché usavano trattare il cereale con sostanze alcaline.
Polenta con la sapa
Preparazione: 400-500 gr di farina gialla, 2 lt di acqua, sale quanto basta, olio. Fare bollire l’acqua con sale, olio in una pentola, quando bolle tolgo la pentola e verso tutta la farina, inizio a girare bene fino a farla diventare una crema. Rimetto su fuoco al minimo per 40 minuti chiusa con coperchio e la lascio cuocere. Minimo 40 minuti ma più cuoce e più è digeribile, si considera comunque sia cotta quando incomincia a staccarsi dalle pareti della pentola. La polenta veniva versata sulla spianatoia, fatta leggermente raffreddare e con il dorso di un cucchiaio fatti dei buchi. La polenta veniva condita con la sapa e i buchi riempiti per soddisfare il palato dei più ghiotti intingendo la polenta stessa. La Sapa si faceva durante la vendemmia, con l’uva ben matura. Si filtrava il mosto fiore e si riempiva un pentolone di rame. Un grande treppiede e il fuoco a legna consentivano una bollitura lunga e lenta, fino a una notevole riduzione; da 4 litri di mosto si aveva un litro di nettare d’uva. Durante la bollitura, che durava 15 ore circa, si provvedeva a schiumare il mosto con un ampio e bucherellato ramaiolo. Alla fine si versava in una tinozza di legno a raffreddare e depositare. Il giorno dopo si imbottigliava, per poi riporla in dispensa o in un posto alto in cantina, ideale per la conservazione. Tanti un tempo gli utilizzi della sapa: per migliorare i dolci di Natale e Carnevale, per preparare tortini dolci con ripieno di marmellate e confetture casalinghe, per perfezionare le crostate di frutta e la frutta cotta, per insaporire la polenta, per impastare ciambelle. D’estate, unita all’acqua fresca di pozzo, era una bibita semplice, gustosa e corroborante.