Dall’inedito “Caravaggio e le ombre dell’anima”
di Matteo Ricucci
Non è accertato che il Caravaggio abbia conosciuto e frequentato personalmente Filippo Neri il quale, attorno alla metà degli anni novanta del Cinquecento, era alla fine del suo apostolato, ormai vecchio ma con un costante sorriso sul viso sia pure malinconico, devastato dalle rughe e dalla consapevolezza della cruda realtà che lo circondava. Viveva come un recluso in tre stanzette della congregazione dell’Oratorio in Santa Maria della Vallicella (foto sotto). Certamente egli conosceva la fama di quel giovane e geniale pittore che tanto faceva parlare di sé tutta Roma, nella buona e nella cattiva sorte. I suoi informatori erano i nobili e ricchi amici dell’Oratorio, ferventi estimatori, collezionisti competenti e possessori di sue opere pregevoli.
La pala d’altare
Siccome fervevano lavori di restauro nella chiesa dell’Oratorio, era in programma la committenza di alcune pale d’altare per le cappelle private da affidare a giovani pittori che si fossero assunto l’obbligo di applicare le rigide norme dettate dal cardinal Paleotti e da Carlo Borromeo i quali avevano a cuore il decoro delle pitture sacre che nelle chiese sarebbero state esposte alla venerazione dei fedeli. Non fu certamente un calcolato scambio di convinzioni ideologiche il loro, ma entrambi trovarono nel nuovo naturalismo pittorico un punto d’incontro di quella nuova “Religione della Strada” che insegnava al mondo la fratellanza di tutti gli esseri umani di fronte al Sommo Padre. Furono queste le ragioni che spinsero Pietro Vittrice, influente e ricco oratoriano, collezionista e critico estimatore del Caravaggio a commissionargli una pala d’altare per una cappella della Chiesa nuova di Santa Maria della Vallicella.
La Deposizione
Nelle precedenti pale di San Luigi dei francesi, di Santa Maria del Popolo, il Caravaggio aveva dipinto le figure umane in forme di viandanti, poveri pellegrini, personaggi calati nella loro eterna pochezza di emarginati della società, chiusi nel loro intimo dolore di chi accetta con rassegnazione il proprio ruolo di vittime di una secolare ingiustizia. Nel 1603 Michelangelo Merisi consegnò all’Oratorio “La Deposizione” (foto sopra) in cui seppe raggiungere una perfetta sintesi tra forma e rappresentazione del simbolo, seppe scolpire con le ombre corpi perfetti che dialogavano con la luce, seppe campire lo spazio in modo da trascinare lo spettatore all’interno della tomba e farlo partecipare come coprotagonista del sacro dramma, attirando il suo sguardo lungo la grande spinta diagonale che dalla mano penzolante di Gesù corre in alto a intersecare le braccia spalancate di una dolente Maria di Cleofa che richiamano sottilmente la Croce. Un’opera dalla immensa potenza descrittiva.
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