Teatro Lauro Rossi
Una comicità raffinata ma a favor di popolo, tagliata sulle esigenze delle frange più svantaggiate della società. Dietro le sbarre Celestini, nei panni di un detenuto, immagina di dialogare con Mazzini nella prova del discorso che ha intenzione di fare durante il suo processo. Una vera lezio-ne di storia con riferimenti a fatti e vicende del periodo risorgimentale esposta, con sagacia e ironia, attraverso la descrizione della condizione disumana delle carceri (in scena: ..il mondo è già una galera, il dentro è solo un fuori più piccolo). Le prigioni, sempre sovraffollate, sono il fulcro di sistemi non educativi ma repressivi. Solo la contro-vertigine, concetto che titola il discorso del detenuto-Celestini, è quella spinta inconscia e disperata che fa crescere il desiderio di lanciarsi nel vuoto. Essa, però, al tempo stesso è un input di rivalsa, la sola arma che il popolo ha per tirar fuori la forza di opporsi alle ingiustizie e alla privazione della dignità umana.
Ascanio figlio di Enea e Creusa o figlio dei nostri tempi? “Mi sento decisamente un uomo di oggi – risponde Celestini – e, nonostante la mia critica alla società attuale, sono ottimista e credo che le cose possano mutare in meglio”.
“Pro Patria” è un titolo provocatorio? Oggi si parla di patriottismo e bene sociale, che poi finiscono per essere calpestati. “Sì, il titolo è decisamente sarcastico. Viviamo un momento storico molto complesso nel quale si acuiscono le ingiustizie, ma esistono ancora persone capaci di grandi cose. Ora più che mai, bisogna capire che se non ci sarà uno che rappresenta i molti, bisognerà lavorare nella clandestinità, intesa come condizione in cui ci si occupa direttamente delle cose senza avere alcun vincolo di delega. E’ dove operano i cosiddetti invisibili che succedono le cose più interessanti”.
A proposito di persone capaci di grandi cose, Gino Strada ha detto che la crisi odierna è un brutale approfondirsi dell’ingiustizia sociale.
“La crisi colpisce soprattutto i disgraziati veri, ma è anche trasversalmente incisiva. Se, però, si pensa in modo ottimistico, la si può guardare come un momento di impasse da cui imparare a rinascere, cambiando stile di vita e usando strumenti non tradizionali, del tutto nuovi”.
Questo clima ci impedisce di agire, il senso di claustrofobia è forte quanto quello delle carceri del suo spettacolo.
“Oggi abbiamo poco tempo e molto spazio. In prigione è il contrario: si ha tanto tempo e uno spazio limitato. Siamo finiti in un circolo vizioso perché non sono solo i politici a essere sporchi, ma anche il vicino di casa. I reati commessi in Italia nascono in una sfera dell’illegalità che a sua volta ha origine dalla legalità”.
Il suo è un teatro-narrazione, ma con le parole Lei è un vero giocoliere.
“In effetti utilizzo la reiterazione delle parole e un ritmo veloce nel recitarle, ma per me non è tanto importante la parola quanto la immagine che evoca. Ci tengo soprattutto a narrare una storia, tutto quello che ci passa in mezzo è solo un modo per far arrivare al pubblico ciò che racconto e la spontaneità con cui la espongo tramite il vortice del parlato”.
Tempo fa, per la rubrica Viaggi di Repubblica, scriveva racconti surreali sulle tappe delle sue tournée teatrali. Quale brano scriverebbe su Macerata? – “Mi è molto dispiaciuto che sia venuto a mancare il signor Marangoni, il re della cioccolata. Scriverei un racconto sul chicco d’uva ricoperto di cioccolato: una geniale invenzione e uno dei link con la mia memoria gustativa”.
Raffaella D’Adderio