Le comodità della vergara

di Cesare Angeletti

prete-e-monaca

 

La vita da vergara non era certamente facile. La fatica tanta. Doveva saper fare tutto, dal cucire al tessere con il telaio, dal curare i familiari con le erbe al tingere la lana e i vestiti con quanto trovava nei campi ma, soprattutto, duvìa esse’ vràa a cucinà’! Mia mamma, anima santa e benedetta, diceva sempre: “Tutte le donne sa’ cucinà’ co’ la credenza piena ma solo quelle più vràe sa’ cucinà’ co’ poche cose!” E lei era brava davvero: basta guardare me per capirlo (ndr: la stazza di Cesare è cosa nota…). Poi potrete anche dire: “E ppo’ ‘ssa porétta non ci-avìa manco le cumudità che ci-aìmo nuaddri ogghj!” Beh, questo è vero ma fino a un certo punto… tanto per fare un esempio: dopo aver scaldato per tanti anni l’acqua per lavarsi co’ lu callà su lu focu arrivò il “bastone elettrico”. Questo era un fregnu de ligno lungo una metrata, sulla parte finale aveva attorcigliata intorno una resistenza elettrica che, una volta infuocata, scaldava l’acqua direttamente dentro a lu vigungiu che sarebbe servito per farsi il bagno. Anche se la resistenza era protetta questo “bastone” ogni tanto faceva una vittima. La vergara aveva provveduto anche al frigorifero. Lei faceva scavare al marito una grotta abbastanza larga e profonda, poi in inverno, alla prima neve, agli uomini di casa faceva mettere in terra, dentro la grotta, un primo strato di neve alto un metro, ben pressato con pezzi di tronchi di quercia alzati e sbattuti giù con forza sulla neve, sopra si metteva uno strato di paglia di venti centimetri, poi altra neve pressata e così via fino a raggiungere i due metri di altezza; lo strato finale, di neve, era il frigorifero e a ogni strato di neve che si scioglieva bastava togliere la paglia che era pronto un altro… frigorifero! Con questo sistema, negli anni più freddi, si poteva anche giungere alla fine di maggio-primi di giugno. Un’altra invenzione, studiata per i periodi freddi, era quella di realizzare la parte superiore de li ciocchi (la tomaia) un poco più grande della misura del piede, in modo che, quanno strinava e tirava la virivina, sulla pianta de lu cioccu ci si metteva ‘na rampata de paja e il piede restava caldo, isolato e asciutto in quanto la paglia fungeva da camera d’aria. Sì, insomma, a tempo antico i nostri vecchi già disponevano de li ciocchi che rispira, senza spendere manco una lira! Anche per i “vizi” erano organizzati. Infatti in ogni casa, dentro una grotta, con l’ingresso nascosto dalle fascine (non si doveva vedere ciò che era vietato dalla legge…), c’era l’alammiccu che sirvìa pe’ fa’ lo mistrà e l’arcole pe’ li liquori. La vergara, che sapeva bene quali erbe usare, non appena il marito aveva preparato, per distillazione, l’alcol (andava da 60° a 90°), faceva certi liquori che erano la fine del mondo per quanto erano buoni. D’inverno i panni non si asciugavano e quelli dei bambini, trianguli e ciripà, invece dovevano essere asciutti prima possibile perché non ce n’erano molti. Ed ecco di nuovo la nostra vergara con una cesta larga una mezza metrata e alta un metro, realizzata con trecce di paglia cucite insieme; sotto era aperta e sopra aveva un coperchio fatto con lo stesso materiale: la paglia intrecciata faceva da termoisolante e non lasciava disperdere il caldo. Infatti dentro questa cesta, a 60 centimetri di altezza, c’era una graticcia fatta di bacchettine di legno, sopra la quale la vergara metteva i panni da asciugare, sotto poneva la monnaca co’ la vrascìa calla per cui, dopo una mezz’ora, grazie a questo caldo i panni erano asciutti. La monneca (una padella di coccia alta una ventina di centimetri) veniva utile pure inserita dentro lu prete (un fregnu di legno a forma di grosso fuso che nel mezzo aveva un cubo da 30 centimetri di lato, costruito con 4 stecche di legno diritte che reggevano due piani, uno di questi era di lamiera e ci si metteva sopra la monneca con la brace. Bastava una mezz’ora che dalla casa fredda, tolto il marchingegno da sotto le coperte, si passava al calduccio del letto. Ancora lo ricordo… che vé pozzo dì’… adèra comme se tte ‘bbraccèsse ‘na vèlla fija che statìa su de giri e te rescallava tuttu quantu!

 

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