di Medardo Arduino
Ricordo che quand’ero ragazzino il nonno, al momento di andare a dormire, mi diceva che l’indomani ci saremmo alzati presto per andare alla fiera di Neive. Non ci dormivo per tutta la notte e alle 4 del mattino, ora della sveglia generale, ero sveglissimo e felice, con gli occhi gonfi di sonno. La fiera, o il mercato, erano, 60 anni fa, un momento importante della vita di relazione e quasi importante come la festa annuale del santo patrono, almeno per i paesi dell’Alto Monferrato e della Langa. Al mercato convenivano venditori e clienti entro un raggio di una, due, tre ore di viaggio a piedi, o meno se il mezzo di trasporto era più veloce, dalla bici al carro alla corriera. Alla fiera, risuonavano gli accenti delle “mezze lingue” ovvero dei dialetti, lingue povere perché non dispongono di segni di scrittura che corrispondano perfettamente ai suoni. Così i dialetti si perdono o si deformano per l’impossibilità di riprodurre coi segni grafici quei suoni dei quali solo le corde vocali istruite dal codice genetico e allenate in situ riescono a pronunciare, quegli stessi suoni che la maestra elementare si sforzava con premi e punizioni a farci supe-rare. Il lungo preambolo è per introdurre una constatazione diretta: seguendo la concatenazione dei bacini d’utenza delle fiere di paese più importanti, si può constatare che i dialetti locali hanno dei punti di, diciamo, rimescolamento o commistione, ai confini di questi bacini, in quelle zone cioè che gravitano su due fiere, più o meno equidistanti. Seguendo queste morbide evoluzioni, originate dalla necessità di comunicare durante compravendite o pettegolezzi, ho constatato che si disegnano i percorsi delle evoluzioni linguistiche delle “mezze lingue”. Quelle che si perdono a causa della tv e della “mobilità” dei lavoratori e che sollecitano i poeti dialettali, ma non hanno, in genere, il rigore di una grammatica ufficiale, semmai, come fa Fernando su La rucola, il piacere di proporre una radice culturale che non dovrebbe andare perduta. La constatazione quantomeno sorprendente è stata per me quella di intravedere, nelle morbide variazioni dialettali, un percorso attraverso la Neustria (come io penso fosse) che va dal Maceratese all’Île de France, senza soluzione di continuità, passando per la Liguria, il Var, il Piemonte, l’Alvernia e la Borgogna. Di mercato in mercato, i dialetti sono comprensibili anche se non uguali. Mi direte: “E’ cosa ovvia!” ma andando a ben studiare, si noteranno due direttrici come due grandi correnti marine che si mescolano, leggermente, sui confini reciproci: quella delle lingue romanze e quella delle lingue germaniche. La prima sale dal centro Italia fino alla Manica, l’altra scende dal Baltico fino al versante sud delle Alpi orientali. Ho fatto queste constatazioni direttamente perché sono nato a Torino, da ragazzo ho vissuto nel Monferrato con amici Langaroli e Occitani, con parenti nel Var come quasi tutti i Monferrini e con lunghi e frequenti contatti di lavoro con i Parigini, talvolta con i Bavaresi. Proprio per questo, mi è tornata alla mente la frase di Dante “il bel paese dove il dolce sì suona”. E’ un modo non certo criptico che il Poeta usa per identificare la nostra lingua; con la stessa logica ho fatto un collegamento: ci sono altre due lingue romanze nella storica Neustria: la Lenguo do’c, in Provenza (ovvero la lenga du se nella Langa) e la Langue d’oil. Entrambe le definizioni si possono ricondurre alla pronuncia dell’affermazione che distingue le tre lingue con la stessa matrice: il sì toscano, il se langarolo-occitano e il oui (oil) francese settentrionale. Anche la definizione della lingua d’oc e della lingua d’oil comincia ad avere un senso comprensibile e non criptico. Per capirlo bisognerebbe passare per la mezza lingua occitana. Il nodo è rappresentato dal fatto che non c’è un fonema specifico per il suono a metà fra la “esse” e la “ci” che i Francesi e i Piemontesi usano pronunciando col suono della “esse” aspra la lettera “c” del nostro alfabeto, in genere seguita da vocali. Se fosse lasciata da sola, la “c” occitano-langarola dovrebbe per coerenza suonare “sé” (leggendo questo vocabolo con le regole fonetiche italiane), perché è solo una convenzione grammaticale recente che debba suonare solo e sempre “k” come in “langue d’oc” specie se nel francese è un suono rarissimo, per la “c” abbiamo il suono “sc” se scritta “ch” e “esse” aspro di “sa, se, si” quando seguita da vocali. Il “sé” è il suono della affermazione nei dialetti della Langa-Alpi Marittime Cuneesi, come nei dialetti primevi del Var, dove si è corrotto in “ue” per la lenta omologazione culturale. Nelle lingue ispaniche si scrive con la cediglia, segno che ho visto senza farci granché caso in alcuni documenti antichi. Quindi concludo proponendo la identificazione dei tre filoni principali delle lingue romanze come Lingua del si, Lenguo do’c, Langue d’oil. Lo sconcertante è che quando un Pollentino o un Treiese rispondono al telefono in genere esordiscono con “hoi!”. Questo pezzo non è una cosa seria, ma un piccolo contributo a innescare uno studio fra le sconcertanti analogie fonetiche fra Francese e Maceratese.