Esperienza diretta di un paziente maceratese
Medico della mutua, medico di base, medico di famiglia: sono termini rassicuranti che implicano la mutualità (tutela e assistenza), un punto di riferimento, il fatto che questo professionista della medicina sia come una persona di casa e venga scelto per la tutela del bene comune della famiglia. Ma la realtà qualche volta è ben diversa: il medico “della mutua” si dimena tra il Giuramento di Ippocrate e il patto d’acciaio con il proprio portafoglio e il proprio tempo libero. Tutto quello che ci passa in mezzo, cioè i pazienti, è un ostacolo al fluire sereno dell’alternanza tra brevi e non estenuanti ore d’ambulatorio (circoscritte con minuzia e fatte rispettare con severità) e il tempo per il tennis, la moglie, lo shopping, la sgommata col Suv pacchiano, la riunione al Rotary Club. Il dottor Guido Tersilli (un magnifico Sordi nel film “Il medico della mutua”) assetato di guadagni, decide che la via più facile per arricchirsi sia accumulare il più gran numero di mutuati che, pur non pagando visita, si fanno prescrivere farmaci a iosa anche se inutili. L’arrampicata sociale del dottore si evolve tramite una serie di sotterfugi, che quest’ultimo mette in atto pur di rimanere fedele al suo obiettivo. Il film risultava grottesco e apparivano esasperate le situazioni ivi descritte. Oggi, invece, tutto questo è iperrealistico e inquietante. Il medico di base non ha nemmeno il camice, quel vello bianco che gli creava un’aura di immacolata moralità e purezza, di qualcosa di consono all’igiene e alla pulizia, di autorevolezza. A questo punto egli possiede solo un’espressione da arrogante e indolente, quella di chi sia già infastidito al solo ingresso dell’assistito malaticcio nel suo ufficio. Nella stanza: poltrone in pelle umana, cornici con foto di moglie e figli, poca immaginaria igiene sul lettino delle visite. Da esso penzola un simil-lenzuolo di carta verde o bianca malconcio e usato dal paziente precedente; per lavarsi le mani il mediconzolo ha un triste lavandino ad angolo come quelli che si trovano negli armadi delle camere, provviste di angolo cottura, negli alberghi di seconda categoria. Eccolo lì, spavaldo, lampadato, pantaloni stretti all’ultima moda e testa pelata lucida, nel cognome qualcosa che ricorda appellativi poco edificanti. Fa la spoletta tra il suo ufficio e lo stanzino della racchia e indisponente segretaria (le scelgono così per non far arrabbiare le mogli, ma poi ci rimettono i pazienti e i medici stessi che sono sempre di malumore). Noi, poveri e spazientiti assistiti, siamo già passati sotto il vaglio della iena in tacchi a spillo (segretaria) che ci ha intimato di andarcene perché non ci si può ammalare all’improvviso… se non si ha l’appuntamento! E se si volesse prendere un appuntamento? L’ambulatorio ha registrato il “tutto esaurito” e cerchiamo di appellarci al fatto che la nostra malattia sia visibile, tangibile (siamo febbricitanti e abbiamo delle pustole alla bocca). Nessuna pietà…Tentiamo una telefonata sul cellulare del dottore che nel frattempo… si è chiuso nel suo studio: il telefonino è staccato ed è impossibile avvicinarlo fisicamente, ormai è blindatissimo. Aspettiamo il giorno dopo, quando l’abilitazione alle visite non prevede prenotazione: tre ore a disposizione (dalle 10 alle 13), una fila di pazienti che arriva sul pianerottolo (periodo da virus influenzale), dobbiamo correre al lavoro e tutti gli altri insieme con noi sono quelli del giorno prima. La gente è accalcata ovunque… dalla sua stanza esce il medico come per prendere una boccata d’aria fresca, ma passa tra starnuti, strombazzamenti nei fazzoletti, attacchi di tosse violenta, brusìo generale. E’ scocciato, infastidito, si rivolge ai pazienti che come noi aspettano da tempo e chiedono spiegazioni: “Ah siete voi!”, come a dire: “Ancora qui?”, la segretaria ventila un: “Ma non potete chiedere un consulto per telefono?”, ma come? Mi visita via cavo? E poi, quando cerchiamo di chiamare il numero dell’ambulatorio (di rete fissa) è sempre occupato perché volutamente staccato per tutto il tempo delle visite! Una volta ci ha persino chiuso il telefono in faccia, lasciandolo occupato per tutto il periodo di apertura dell’ambulatorio con una scusa plateale: “E’ caduta la linea!” Pazientiamo (sennò che… pazienti siamo!) ancora, torniamo per il terzo giorno consecutivo, stavolta dalla mattina per chiedere appuntamento per il pomeriggio: tutto pieno! Il nostro stato di salute è peggiorato e noi siamo arrabbiati. Diciamo al dottorino che lui ha un codice deontologico da rispettare e che non abbiamo intenzione di subire oltre. La sua risposta è villana e sgarbata, correlata anche di insulti personali e gesti inequivocabili. Da Il dizionario del diavolo (1911), Ambrose Bierce dà una definizione di Dottore: “Un gentiluomo che prospera con le malattie e muore con la buona salute”.
Raffaella D’Adderio