Un libro di Giuseppe Centanni
Con una ninnananna di quattro strofe, rimembranza delle nenie di quando era fanciullo, inizia un viaggio nell’universo del linguaggio. Quello non scritto, quello sepolto tra granelli di polvere e poi riportato alla luce con le vite di chi lo ha costruito, quello narrato dai monumenti storici, dai ruderi, dagli alberi, dalle canzoni, dalle rughe di un capo tuareg. Edito dalla casa editrice “Il Ponte Vecchio”, il romanzo-saggio di Giuseppe Centanni sperimenta i tanti tessuti della parola con consapevolezza, con impeccabili riferimenti tecnici e storici. Una operazione chirurgica non sterile fatta sul linguaggio: è una pratica che si fonde col fantasticare dell’io e riporta alla luce i luoghi più reconditi della memoria. Da qui, il linguaggio si lancia verso il futuro in una continuità spazio-temporale che la parola sancisce in tutte le sue espressioni: la politica, l’amore, i costumi di un popolo, la letteratura, la filosofia, la musica, i suoni “riesumati” da un’analisi del pulviscolo, sedimentatosi in ogni anfratto, a ogni passaggio dell’uomo o degli animali. Tutto è parola: la foresta dell’Amazzonia, la capanna dell’Amenokal, il Sahara, le chiese e le piazze romane, il “puturu” (piercing di legno degli indigeni), i piccioni metropolitani vicino ai tavolini del bar. Ma infine dove vanno le parole? “Ogni parola che si fa cultura, finisce nel genoma umano…” e potrà essere dimenticata ma mai cancellata: è questo il segreto dell’immortalità.
Raffaella D’Adderio