Dall’inedito “Caravaggio e le ombre dell’anima”
di Matteo Ricucci
Merisi, nel 1595, si trasferì in palazzo Madama, principesca sede del Cardinale, dove continuò a produrre opere davvero prestigiose. In tale ambiente, frequentato dalle menti più geniali del mondo di allora, sia laico che religioso, certamente il Merisi ne subì il fascino, approfittando di quella opportunità, per approfondire le sue conoscenze. C’è chi afferma che egli, durante il suo apprendistato presso il Peterzano, fece un suo presunto viaggio-studio a Venezia, dove si sarebbe abbeverato alle limpide acque pittoriche di un Tiziano, di un Giorgione, di un Savoldo, di un Lotto, di un Moretto, di un Moroni e di tanti altri geni della pittura e della cultura lombardo-veneta.
Ancora lo spadone
Qualche mala lingua insinuò, invece, anche l’ipotesi che il giovane Merisi, nello stesso periodo, fosse stato ospite di qualche imprecisata prigione per un’accusa di complicità nell’assassinio di un coetaneo. Si presume, quindi, che la personalità di un tale giovane, a contatto con un ambiente luciferino, come quello della Roma della fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, tra baruffe e risse, per motivi ideologici e per contingenze esistenziali, non potesse di certo svilupparsi pacificamente. Fu per tutto questo, che, contro ogni norma vigente in fatto di possesso e uso delle armi, egli si pavoneggiò con quel suo spadone che snudava a ogni minima provocazione. A causa di ciò egli fece subito esperienza delle tetre carceri di Tor di Nona, di Castel Sant’Angelo e di Corte Savella e anche delle numerose e mirabolanti fughe per sottrarsi ai tentativi di cattura da parte degli sgherri papalini.
Compagnie romane
Un soggetto simile non poteva passare inosservato e ben presto attirò l’attenzione di altri giovani pittori: Orazio Gentileschi, Prospero Orsi, detto Prosperino delle Grottesche, Ottavio Leoni, Mario Minniti, Antiveduto Gramatica, Onorio Longhi e tanti altri, irrequieti come lui e tutti insieme lanciati alla scoperta d’una guida carismatica che facesse loro da battistrada. Costoro, oltre a ispirarsi al suo nuovo linguaggio artistico, gli tenevano mano durante le liti con i giovani allievi dell’Accademia di San Luca e con chiunque attraversasse loro la strada.
Il concetto estetico
Michelangelo Merisi aveva sviluppato una sua personale estetica sui concetti di “vero” e di “verosimiglianza”, cioè attorno al mondo che ci circonda e alla realtà che ci condiziona, dipingendo di getto figure di “taglio”, cioè mezze figure, inserite in uno spazio quadrato o rettangolare con uno o più personaggi e con proiezioni luministiche oblique la cui fonte era quasi sempre a sinistra del quadro e costantemente fuori dalla scena rappresentata (vedi le foto). Il suo mondo pittorico trasudava verismo da ogni poro ed era perciò assolutamente nuovo e rivoluzionario, diverso a fronte di quello piramidale e spiraliforme del “Giudizio Universale” d’un Michelangelo Buonarroti e ancor più degli stanchi parti mentali degli ultimi manieristi. Per tutto ciò non necessitavano studi preparatori, sofismi accademici, strenue fatiche per affinare la tecnica del disegno che egli non usò mai.
Importante per un pittore naturalista era procacciarsi tanti modelli, attingendoli dalla strada. Per effetto delle sue intuizioni luministiche, egli li ritraeva, marcandone i contorni con un serrato giuoco di ombre dense, (“ingagliardir le ombre”). Tingeva di nero le pareti dell’ambiente dov’era il soggetto da ritrarre, facendo piovere, da uno spioncino del soffitto, un fascio di luce il più puro possibile. Si narra ch’egli avesse sviluppato un congegno che chiamò “riflessore”, costituito da un complesso gioco di specchi, chiusi in una camera oscura (già ideata e costruita da Gianbattista della Porta), per mezzo del quale otteneva la proiezione dell’oggetto o del soggetto da ritrarre nella migliore delle condizioni luministiche. Con quel buio totale, rotto solo da una unica fonte di luce pura, senza riflessi, indirizzata sul corpo del modello, egli scolpiva sulla tela la forma delle ombre, ossia le masse e i volumi alla stessa stregua di un plasticatore con la creta e tutto allo scopo d’ottenere un clone perfetto.
(continua)